Daniele Lazzeri lavora da vent’anni nel settore delle consulenze in materia finanziaria. Attualmente è chairman del think tank di studi geopolitici e di economia internazionale Il Nodo di Gordio e direttore responsabile dell’omonima rivista quadrimestrale, dove si occupa dell’analisi economico-finanziaria globale. Naturalmente il nome sia del think tank che della rivista rievoca il taglio netto fatto da Alessandro Magno al Nodo di Gordio simbolo della separazione tra Europa ed Asia. Obiettivo del progetto è l’analisi da parte di un gruppo di studiosi (professori universitari, docenti, diplomatici) degli scenari geopolitici e geoeconomici contemporanei, con particolare attenzione alla “regione del Mediterraneo allargato” ed a quelle del Caucaso e dell’Asia Centrale.
L’intervento militare in Libia, del quale si è tanto parlato in questi giorni, è necessario per la difesa degli interessi economici, strategici ed energetici dell’Italia? Eventualmente attraverso quale modalità? Facendo parte di una coalizione Onu o autonomamente?
Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti. Se si dovesse intervenire in Libia, il che pare assolutamente necessario, evitiamo di utilizzare termini come “missioni di peacekeeping” o di “peace enforcing”. In Libia si va a fare la guerra. Ecco spiegati i tentennamenti e le parziali retromarce del Governo dopo le dichiarazioni interventiste di dieci giorni fa dei ministri Gentiloni e Pinotti e del presidente del Consiglio Matteo Renzi. La parola “guerra” fa sempre un certo effetto e, come già successo in passato, si può immaginare quanti si richiameranno all’articolo della Costituzione italiana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali… Ciononostante è impensabile fare i pesci in barile di fronte al caos che sta attraversando la Libia con tutte le conseguenze del caso. Storicamente l’Italia ha interessi strategici economici e geopolitici con Tripoli. Le fonti di approvvigionamento energetico, in questo senso, sono solo uno degli aspetti da tenere in considerazione. Quello che occorrerebbe fare immediatamente, prima di ogni valutazione politica, è convocare un vertice di analisti, esperti del settore e think tank di strategia geopolitica e militare per mettere a fuoco la reale situazione in Libia. Tribù in contrasto tra loro, due governi che non intendono parlarsi e, ora le scorribande delle milizie dell’Isis che continuano ad inglobare le piccole cellule jihadiste locali. In questo scenario, la prima domanda da porsi è: intervenire a favore di chi? La seconda domanda da porsi è: con chi? L’Onu per sua natura è lento e macchinoso. Difficilmente porterà a casa qualche risultato positivo in tempi brevi dopo gli esiti fallimentari delle ultime missioni. Sarebbe opportuno che l’Italia si ponesse alla guida di una coalizione militarmente consistente con Francia e Inghilterra, se non altro per porre rimedio ai danni provocati nel 2011 con il rovesciamento di Gheddafi, sapendo di godere in questo frangente di una buona sponda nell’Egitto di Al Sisi. Trovo però difficile che ciò avvenga perché gli interessi in gioco sono diversi e non è facile coinvolgere in questa operazione altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Pensiamo solo alla Turchia che, pur essendo una potenza militare della Nato nel Mediterraneo non ha buoni rapporti con l’Egitto o ad altri Stati ancora alle prese con gli effetti delle cosiddette primavere arabe. Un esempio su tutti? La Tunisia che comincia a destare qualche preoccupazione in uno scacchiere geopolitico già sufficientemente compromesso…
Quello che i media chiamano “Stato Islamico” in Libia rappresenta una reale minaccia militare per l’Italia?
Non ritengo si tratti di una minaccia militare in senso stretto, se per questo si intende il lancio di missili contro le nostre coste o la prospettiva surreale di un attacco via mare. La Marina Militare e la contraerea italiane hanno mezzi e strumenti che l’Isis si sogna. Il reale pericolo è quello ascrivibile all’aumento indiscriminato e crescente degli sbarchi. Un’emergenza umanitaria e di sicurezza che dovrebbe vedere impegnate le cancellerie di tutta Europa. Cosa che non è…
Quella terra di nessuno che è la Libia di oggi, infatti, è il corridoio principale attraverso il quale catapultare sulle sponde italiane milioni di disperati provenienti in particolare dall’Africa occidentale. E su questo punto, francamente, trovo pretestuose le accuse rivolte alla Marina Militare Italiana nella gestione delle operazioni Mare Nostrum e Triton, nel senso che ho l’impressione che non ci sia una corretta percezione della complessità della situazione…
Dalla situazione libica e dal Consiglio di Sicurezza Onu di qualche giorno fa appare sempre più netto il legame politico ed economico tra Stati Uniti ed Ue. Secondo lei una politica estera ed energetica sempre più influenzata dagli USA può effettivamente giovare all’Italia ed agli Stati Europei?
La globalizzazione dei mercati ha dimostrato che gli interscambi commerciali e gli equilibri economici sono in fase di profonda mutazione. Da qui l’interesse e la pressione degli Stati Uniti per chiudere al più presto il Trattato transatlantico sul commercio tra Unione europea e Usa. Ma le dinamiche geopolitiche ed i cambiamenti strutturali degli ultimi decenni stanno facendo riemergere la storica vocazione dell’Europa a guardare ad Est, verso la Russia. Nonostante la crisi in Ucraina e le conseguenti frizioni tra Mosca e Bruxelles, è sempre più evidente l’interdipendenza, non solo da un punto di vista energetico, tra l’Europa e la Russia. Ecco perché le sanzioni comminate a Mosca rappresentano un boomerang non solo in termini economici per le imprese europee ma anche per la definizione degli scenari di collaborazione politica che sono inevitabili…
Se da una parte la Troika continua ad imporre la sua visione economico-politica sulla maggior parte degli Stati Europei, dall’altra i Brics creano un’alternativa al Fondo Monetario Internazionale istituendo una propria Banca di Sviluppo nella quale la Russia ha investito circa 100 miliardi di dollari. Come crede che si evolverà questa situazione economica e, soprattutto, quale posizione dovrebbe prendere l’Italia?
La notizia è sicuramente significativa ed è la conferma di un percorso avviato negli scorsi anni dai Paesi definiti Brics. Tuttavia l’Italia c’entra ben poco con la costruzione di questa alternativa al Fondo monetario internazionale. Difficile ipotizzare un’alleanza che comprenda quadranti geopolitici e situazioni economiche così differenti. Dal Brasile alla Russia, dal Sud Africa all’India o alla Cina. L’Italia, piaccia o meno, è ancora una potenza economica di tutto rispetto, ancorché in evidente declino. Rimane la terza economia in Europa e la seconda per produzione industriale dopo la Germania. Trovo improbabile che possa sposare un progetto come quello della Banca di Sviluppo dei Brics. La Cina, peraltro, tra qualche mese vedrà con tutta probabilità riconosciuta dagli Usa la sua richiesta di revisione delle quote di partecipazione all’Fmi. L’attesa, che dura da qualche anno, rivoluzionerà i rapporti interni all’Ente internazionale, dimostrando nel contempo che la Cina è in grado di giocare le sue carte su tavoli separati. In questo caso gli equilibri ed i rapporti di forza nella gestione della finanza globale cambieranno ulteriormente.
Ciò che, invece, sarà interessante osservare sono gli effetti dei vincoli posti dal Fondo monetario internazionale ad alcuni Paesi strategici. Non solo in Grecia ma anche in Ucraina le politiche economiche imposte stanno dando frutti difficilmente apprezzabili e monta un risentimento popolare che ha coinvolto anche la Spagna con le manifestazioni di piazza del movimento Podemos.
Per il momento, la Cancelliera tedesca Angela Merkel finge di non vedere. Ma la “periferia d’Europa”, quella Mediterranea ma anche quella Orientale, potrebbero riservare qualche sorpresa nei disegni egemonici di Berlino…
@barbadilloit