E’ successo tutto in una notte, una notte di odio pregiudizio e vendetta di cinquantatré anni fa, quando un Fairchild C-119 della 46^ Aerobrigata dell’AM di Pisa atterra su una pista del Congo.
Il “119” ha una sagoma familiare, sembra una pillola di quelle che si prendono quando si è influenzati. Un pasticcone con una coda a doppia deriva che conferisce all’aereo militare un aspetto grottesco e stimola la domanda: “ma decollerà sul serio?”
Decolla eccome e, fisionomie a parte, le sue qualità di eccellente trasporto tattico le ha dimostrate già nel decennio precedente quando, in volo sul nord del Vietnam, ha rifornito di armi, mezzi e paracadutisti il campo trincerato francese di Dien Bien Phu, a ovest di Hanoi. Quel bestione, non a caso ribattezzato “sky train” (treno del cielo, nda), ha capacità di carico e funzionalità inimmaginabili per i primi due decenni del dopoguerra. In Italia il C-119 serve la 46^ Aerobrigata di Pisa impegnata, nel 1961, in una missione umanitaria nell’ex Congo belga, paese sconvolto da una guerra civile tra i secessionisti del Katanga guidati da Moise Ciombi e il governo di Kinshasa (ai tempi Leopoldville).
Una guerra sporca e non solo perché coinvolge la popolazione: il Katanga è una regione ricca di giacimenti minerari, che fanno gola alle compagnie diamantifere europee le quali, per mantenere un controllo politico sulla regione, non esitano ad arruolare mercenari tedeschi, belgi e francesi veterani della Seconda Guerra Mondiale e dei conflitti coloniali. La situazione è critica e i pericoli tanti sia per chi in Congo vive, sia per chi cerca di trovare una soluzione diplomatica o, più semplicemente, di fornire assistenza.
Nel settembre 1961, il Segretario generale dell’ONU Dag Hammarskjöld muore in un incidente aereo, le cui dinamiche non sono mai state chiarite; il 25 dello stesso mese, muore ad Albertville Raffaele Soru, caporale del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, ferito a morte dai ribelli.
La tensione è alta ma, intanto, il nostro C-119 è atterrato a Kindu, nella provincia di Maniema. Dopo il rullaggio sulla pista, l’aereo si ferma, i motori si spengono e il personale scende a terra, accolto dalla guarnigione malese del comandante Maud, che controlla l’aeroporto.
Mentre i militari delle due nazioni pranzano al comando delle forze ONU, un’ottantina di congolesi fa irruzione. Sono forze regolari convinte che gli italiani, bianchi, siano mercenari al soldo dei secessionisti. I malesi cercano di chiarire l’equivoco, ma la situazione sfugge di mano: il tenente medico Remotti (romano, 29 anni) cerca una via di scampo attraverso la finestra. Gli va male. E’ la prima vittima. Il resto del contingente AM è rinchiuso nelle carceri della città; nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 novembre 1961 si consuma la tragedia: tredici ammazzati a colpi di mitraglia e di machete, i corpi gettati in una fossa comune.
Principale indiziato dell’eccidio è il colonnello Pakassa. In “Freedom and Anarchy” Erick Packham sostiene che Pakassa, di fronte alle insistenze dell’ ONU (il generale Lundula il 13 novembre arriva i Kindu per trattare il rilascio dei prigionieri) risponde di non sapere più nulla degli italiani poiché sarebbero tutti scappati.
In realtà il 13 novembre i piloti e gli avieri della 46^ Aerobrigata sono già morti. Tredici persone, professionisti in missione di peace keeping, primi caduti “oltre mare” dal 1945.
Una brutta storia, non diversa da quella di Nassiriya, il cui anniversario ricorre anch’esso il 12 novembre, tragica coincidenza storica. Qui, più delle lame fa male l’esplosivo, che causa ventotto vittime, diciannove italiane e nove locali. Ma gli italiani, si sa, sono di memoria corta. E se Nassiriya per alcuni è già diventato “un nome che ho sentito”, è probabile che per molti altri Kindu sia un nome che non dice davvero nulla.
@marco_petrelli