C’è una linea davvero rossa che lega alcune delle aree attualmente sede di conflitti ed acute tensioni ingenerate dai (cosiddetti) fondamentalisti islamici. E’ una linea che collega la regione al crocevia tra Mali-Ciad e Libia al Sudan nord-occidentale per poi proseguire verso la regione a nord-ovest della città irachena di Mossul e, infine, raggiungere il Sinjar (a sud-est di Damasco) lungo un’area che collega idealmente Siria ed Iraq. Questi territori – apparentemente distanti tra loro – sono venuti alla ribalta delle cronache nel corso degli ultimi quindici anni a seguito di eventi terroristici, inizialmente e in primo luogo riconducibili alle attività prima di Al-Quaida, e oggi dell’L’ISIL (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), noto anche ai mezzi di informazione soprattutto come ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham). L’ISIL/ISIS pretende di restaurare il Califfato (l’ultimo venne soppresso in Turchia con la riforma laica voluta da Kemal Ataturk nel 1924) ed estendere il proprio controllo su un’area che spazia dal Nord-Africa fino ai territori, a maggioranza musulmana, che si affacciano sul Bosforo.
Il termine “Califfato” fa riferimento ad una forma di governo teocratico al cui vertice sta il Califfo, dall’arabo “khilāfa”, che significa “successione”, “luogotenenza” e si riferisce al sistema di governo adottato dal primissimo Islam il giorno stesso della morte di Maometto. Il califfo è propriamente il vicario del Profeta, demandato in primo luogo ad assicurare l’unità politica dei musulmani (la Umma), a prescindere dalle differenze nazionali. Un sinonimo di califfo è l’espressione “Comandante di credenti” (Amīr al-muʾminīn), successore politico più che spirituale di Maometto nella sua funzione di capo della Umma.
Il ripristino di questa funzione sembra essere al centro degli obiettivi politici dell’ISIL/ISIS, una organizzazione composita, sotto il profilo etnico e nazionale, che emerge come da nulla nel 2004, da una “costola” radicale dell’organizzazione Al-Quaida di Osama Bin Laden, all’epoca sotto la guida di Abū Mu’ab al-Zarqawī. Il rapporto con Al-Quaida viene però ad incrinarsi ben presto, già nel 2005, per il riemergere di differenze più contingenti e politiche (relative all’uso indiscriminato della violenza sulle popolazioni sunnite non wahabite), che non ideologiche. Da allora, le attività dell’ISIL/ISIS hanno marcato un continuo crescendo e non è inverosimile che eserciteranno sempre più un irresistibile richiamo nei riguardi di altri movimenti terroristici, primo tra tutti la stessa Al-Quaida con cui la rottura definitiva è avvenuta nel 2013, quando Ayman al-Zawāhirī durante la guerra civile che dilania la Siria ha disconosciuto l’ISIL/ISIS e dichiarato il proprio sostegno agli islamisti antigovernativi del Fronte al-Nusra.
Fin qui la cronaca degli ultimi anni. Pochi sanno però che il progetto del Califfato portato avanti oggi dall’L’ISIL/ISIS affonda le sue origini molto lontano nel tempo, ed è venuto alimentandosi grazie alla convergenza di due distinti fenomeni: da una parte la nascita di un movimento ereticale millenarista di ispirazione wahabita (per capire cos’è il “wahabitismo” si veda il box a pp. ??) nel Sudan, intorno al 1881; e dall’altra gli errori (stigmatizzati dallo stesso Winston Churchill nel suo “The River War – an Account of the Reconquest of the Sudan”) compiuti allora dagli Inglesi nel gestire quel primo caso di terrorismo cosiddetto “islamico”.
Per intendere a fondo questo secondo punto occorre andare a riscoprire tra le pieghe della Storia la figura di Mohamed Ahmed (1844-1885) – il suo nome completo era Muḥammad Aḥmad ibn al-Sayyid ʿAbd Allāh ibn Faḥl – un giovane sudanese di umili origini che venne educato nell’ambito di una “tariqa” sufi, cioè una confraternita esoterica islamica sufi. Quella tariqa, deviata ed infiltrata dal wahabismo conosciuta come “Sammāniyya”, era diffusa particolarmente in Sudan, in Etiopia occidentale e in Asia sud-orientale. La “Sammāniyya” è attiva ancor oggi e il suo principale esponente è Hasan Muhammad al-Fātih Qarīb Allāh, ex-vice Rettore dell’Università islamica di Omdurman, la più grande città del Sudan.
Dalla predicazione di Muḥammad Aḥmad, che nel tempo era divenuto il leader indiscusso della “Sammāniyya” prese le mosse nel 1881 la sollevazione dei musulmani del Sudan contro il dominio egiziano (l’Egitto era a quel tempo sotto il parziale controllo della Gran Bretagna) per promuovere uno “stato islamico” – la Mahdiyah – retto dal Mahdi (“il ben guidato”) e destinato a contrastare la degenerazione dei costumi e ristabilire l’autentico Islam, dal Nord-Africa fino in India. Muhammad Ahmad , proclamatosi Mahdi dichiarò la “Guerra santa”, lo Jihad (nonostante che il consiglio degli Ulema avesse disconosciuto la sua qualità di Mahdi e lo avesse discreditato), raccogliendo attorno a sé gli Ansàr (“coloro che aiutano”) e promuovendo la conquista del Sudan. Di vittoria in vittoria, il Mahdi procedette con lo sterminio sistematico di sunniti e sciti, e in generale di quanti non si piegavano a riconoscere la nuova figura messianica come tale, distruggendo i luoghi di culto tradizionali (tra cui la tomba del sayyd Al-Hassan, a Kassala, luogo di venerazione particolarmente caro agli sciiti), in ciò anticipando le tristi gesta compiute dall’ISIL/ISIS che registriamo in questi mesi. Come noto, nel gennaio 1885 le truppe del Mahdi conquistarono Karthoum (dopo averla infiltrata ed aver fatto precedere l’attacco da una miriade di attentati suicidi e di episodi di micro-terrorismo anticipatori delle moderne tecniche), invano difesa dal generale inglese Charles George Gordon, il mitico Gordon Pasha, che fu ucciso proprio dagli uomini del Mahdi. Con quella vittoria i “mahadisti” estesero il loro controllo su pressoché tutto il Sudan e l’Egitto meridionale. Dopo gli errori di sottovalutazione iniziali, occorsero vent’anni agli Inglesi per ristabilire un precario controllo sulla regione.
Muhammad Ahmad, il Mahdi, morto di febbre tifoide sei mesi dopo aver conquistato Khartoum, è tutt’oggi considerato il fondatore del nazionalismo sudanese. Il Partito Umma pretende di esserne il discendente politico ed il custode della tradizione inaugurata nel periodo 1881-1885. Il Leader attuale del movimento – Sadiq-al-Mahdi, nato nel 1935 – è il pronipote del primo Mahdi e l’Imam degli attuali Ansar, l’ordine religioso istituito ai tempi di Muhammad Ahmad. Sadiq è stato primo ministro del Sudan in due circostanze: nel 1966-67 e nel 1986-1989. Sarebbe interessante sapere se esiste un qualche collegamento tra i movimenti fondamentalisti attuali in Sudan e l’ISIL/ISIS. Osama-bin-Laden era sicuramente in relazione con una cellula quaedista sudanese e nel Sudan ebbe una sua base in cui dimorò dal 1992 al 1996. È probabilmente dalle basi del Sudan che vennero organizzati gli attentati di Nairobi e Dar-Es-Salaam contro le ambasciate statunitensi nel 1998, tant’è che la risposta americana comportò bombardamenti a tappeto di obiettivi militari e di fabbriche chimico-farmaceutiche proprio in Sudan, presso Al-Shifa.
L’obbiettivo del movimento mahadista, in perfetta assonanza con quello dell’ISIL/ISIS, era quello di diffondere il conflitto all’interno dell’Islam, per far poi prevalere le ragioni della Mahdiyah, intesa come “compimento” millenaristico dei fini dei tempi, corrispondente all’Apocalisse cristiana, nota nel Corano come “l’Ora”. Non a caso l’ISIL/ISIS ha scelto per il suo “magazine” online il nome Dabiq, con riferimento all’area prossima ad Aleppo in Siria che la tradizione islamica descrive come il luogo dello scontro finale (l’armageddon, in greco) tra il Mahdi e al-Dajjal (il “bugiardo”, l’anticristo nella versione musulmana). Il riferimento a Dabiq è presente in numerosi hadith muhammadici (i “detti” attribuiti al Profeta), sovente citati da al-Zarqawi che ha ricordato come “la vittoria a Dabiq rappresenta la prima tappa nella conquista del mondo, a cominciare dalla disfatta di Costantinopoli e quindi di Roma”.
L’ISIL/ISIS , ha quindi chiari caratteri “mahdisti”, cui del resto si richiama esplicitamente anche nei documenti resi disponibili online. Sulla base di questa (auto) investitura, l’ISIL/ISIS ha riscritto le stesse regole della Shari’ah, il corpus normativo di origine divinala cui accettazione da parte del singolo ne assicura lo stato di musulmano (muslim: cioè “sottomesso alla legge”). L’importanza non solo religiosa, ma sociale della Shari`ah è straordinario dato che impone un modello comportamentale e il supporto imprescindibile che permette ai musulmani di potersi riconoscere in un’unica comunità. La riscrittura della Shari`ah da parte dei fondamentalisti islamici ha stravolto l’impianto originario, introducendo norme estranee al Corano, ma funzionali al tipo di lotta politica che si vuole perseguire, legittimandole sulla base di presunte rivelazioni fatte direttamente al fondatore della setta da parte del Profeta Muhammad. È degno di nota come l’insegnamento veicolato dalla Sammāniyya (da cui emerse, ricordiamolo, il primo e più importante Mahdi), presenti non poche analogie con quanto proclamato dall’ISIL/ISIS, ed in particolare mostra questo insolito connubio tra il richiamo ad un forte ed esasperato tradizionalismo e le istanze riformatrici che pretendono plasmare la società musulmana favorendone l’appiattimento su una interpretazione letterale di alcuni passaggi coranici.
Queste posizioni sono state mutuate dall’introduzione di un concetto assolutamente estraneo alla tradizione musulmana, il ijtihàd, ovvero la “meditazione personale ed indipendente” che deve guidare ogni credente nella sua “propria” analisi e lettura del Corano. Si tratta di una posizione teologica formalmente analoga a quella del Protestantesimo Luterano e Calvinista che rivendica al fedele il diritto di “interpretare” il testo sacro (aprendo così la via ad ogni sorta di arbitrio interpretativo). Come conseguenza, chi compie questo genere di analisi servendosi dell’ijtihàd non è obbligato ad accettare le conclusioni dei grandi maestri medievali; anzi, la cieca adesione agli insegnamenti di questi maestri può essere considerata “politeismo”. Questo atteggiamento spiega in particolare la feroce opposizione dei fondamentalisti di ispirazione wahabita all’insegnamento degli Ulema e, in particolare, alla tradizione Sufi. Per altro verso, la portata chiaramente “ereticale” di tale assunto, spiega l’avversione risoluta della tradizione islamica sunnita e sciita nei confronti dell’L’ISIL/ISIS e di tutti quei movimenti fondamentalisti che si richiamano alla ijtihàd.
Per questo la restaurazione del califfato costituisce solo un obiettivo minore (o solo apparente) rispetto ad una strategia che può essere correttamente intesa solo in una prospettiva “apocalittica”, cioè analizzando quali potrebbero o dovrebbero essere i fini e i destini ultimi della Storia secondo i “mahdisti”. Il carattere millenarista della loro azione spiega, tra l’altro, perché l’ISIL/ISIS eserciti una così forte influenza sui suoi membri e di come ne preservi l’unità a dispetto dell’eterogeneità dei partecipanti. L’ISIL/ISIS conferisce ai propri aderenti ciò che la civiltà occidentale non riesce più a fornire: una interpretazione della vita ed un disegno escatologico che permette di assegnare valori e significato ad esperienze condotte al limite. Non bisogna tuttavia cadere nella trappola ordita da chi, dietro le quinte, manovra questo multi variegato fronte dell’ultra-fondamentalismo. È istruttivo infatti considerare l’ambiguo ruolo svolto finora dall’Arabia Saudita che, dopo decenni di sotterraneo fiancheggiamento, pretende di porsi, oggi, alla testa del movimento anti-ISIS. L’ISIL/ISIS finirà sicuramente con il crollare – per motivi esterni ed interni – ma alla fine, quale unico rappresentante accreditato dell’Islam “moderato” emergerà paradossalmente solo l’Arabia Saudita. Marginalizzato l’Iran, frantumati Siria ed Iraq, l’intero mondo musulmano rischia di essere così egemonizzato, paradossalmente, proprio dalla potenza che più di tutti ha congiurato per creare l’attuale stato di crisi. E lo stendardo nero della “liberazione” mahidista ben presto resterà nelle sole mani degli estremisti radicali wahabiti.
Non è un caso che il messaggio mahdista trovi pronta accoglienza nelle popolazioni da secoli educate all’attesa del Mahdi: nel Sudan, in primo luogo, ma altresì tra i salafiti iracheni, dell’Arabia Saudita, o in alcune popolazioni presenti in Ciad, nel Mali e in Nigeria ed in Iraq. Storicamente il movimento mahdista in Iraq è stato sostenuto dalla fazione sciita, per il tramite di Muktar-al-Sadr figlio di Mohammed Sadeq al-Sadr fatto uccidere, probabilmente, dal dittatore Saddam Hussein nel febbraio 1999. Muktar-al-Sadr nel 2003 ha organizzato la Jaysh-al-Mahdi (“armata del Mahdi”) per combattere gli americani che occupavano l’Iraq. Dopo alterne vicende, che hanno tra l’altro visto il radicale evolversi della politica del gruppo di Muktar, quest’ultimo ha annunciato nel 2014 il suo ritiro dalla scena politica. È dubbio però che tra i mahdisti di fede sciita e l’ISIL/ISIS possa esistere una qualche forma di cooperazione, considerato il baratro ideologico che li divide. Ma il primo nemico dei mahdisti sono ovviamente gli sciti e gli alaouiti (i più propensi al dialogo con i cristiani) e quindi i sunniti tradizionali. Questo spiega l’ostilità dell’ISIL/ISIS nei confronti del regime siriano di Assad (alaouita) che, ricordiamolo, ha assicurato nel dopoguerra la sopravvivenza di uno stato “laico”, in cui convivono ben sette etnie diverse e 17 confessioni religiose. Lo stato siriano non pone discriminazioni religiose (l’appartenenza confessionale non viene riportata sui documenti). Non si capisce pertanto come molti paesi occidentali abbiano potuto sostenere le forze dei cosiddetti “ribelli” che, particolare sinistro, sono invece state da subito riconosciute e aiutate dall’Arabia Saudita. Va ricordato, en passant, che la disgregazione in atto dello stato siriano con il risultante spezzettamento in aree di diversa etnia e religiosa, sembra rispondere ai suggerimenti riportati in una pubblicazione del 1982 (A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, un saggio di Oded Yinon, allora alto funzionario del ministero degli Esteri di Israele) che ha trovato ampio credito in alcuni ambienti occidentali e sauditi.
Gli Yezidi, popolazione curda da sempre nel mirino delle persecuzioni musulmane (e non solo) rappresentano invece solo un utile agnello sacrificale, essendo stati coinvolti, loro malgrado, in una guerra che interessa un’area geografica che costituisce uno snodo strategico nelle relazioni tra le diverse confessioni religiose islamiche. E, a conferma di come la geografia sia importante per capire cosa sta accadendo e dove le tragedie e i drammi di oggi affondino le radici, è inquietante notare come le aree calde cui dianzi si faceva riferimento, possano essere tutte inquadrate entro i confini di una carta geografica ricostruita sulla base di antiche tradizioni misteriosofiche ed occultiste. È infatti noto agli studiosi sufi, da almeno un secolo (ben prima quindi degli avvenimenti odierni), che le aree in cui sarebbero comparsi i disordini legati all’avvento “apocalittico” del Mahdi (e in cui avrebbero “agito” le “forze del Male”, esemplificate nella figura de Al-Dajjal cioé il “bugiardo”, l’anticristo nella versione musulmana), corrispondono ad alcune “torri” situate, almeno quattro di queste, nelle aree geo-strategiche di cui stiamo parlando. E’ altresì significativo che una quinta area venga collocata nella regione dell’antico Turkestan, oggi sede di tensioni tra comunità di diversa religione in cui sta facendo la sua comparsa un forte movimento islamista. Presto sapremo se la leggenda che ha ispirato la cartina di questa pagina, si tradurrà ulteriormente in realtà. (da Storia in rete)
@barbadilloit
*Università “La Sapienza” – Roma