Un discorso programmatico, da vero capo di Stato. Quello tenuto dal presidente russo Vladimir Putin il 24 ottobre scorso, alla sessione plenaria del Forum internazionale del «Club Valdai» (la fondazione no-profit che da anni si occupa del ruolo geopolitico della Russia nel mondo), non è una dichiarazione di guerra, ma un duro messaggio all’Occidente e in particolare agli Stati Uniti. Dagli errori in Medio Oriente alla lotta al terrorismo, dalle sanzioni dopo la crisi ucraina alle ingerenze economiche e politiche, Putin spiega perché la Russia non cambia posizione. E anzi, rilancia il suo ruolo di superpotenza. (da ilgiornale.it)
Egregi colleghi! Signore e signori! Cari amici! (…)
Non intendo deludervi e parlerò in modo diretto, franco. Qualche dichiarazione potrà, probabilmente, apparire esageratamente aspra.
Ma se non parliamo in modo chiaro e diretto esprimendo i nostri pensieri reali e veri, allora non avrebbe alcun senso fare incontri di questo tipo. Si potrebbe, in quel caso, convocare dei raduni diplomatici dove nessuno parla in modo essenziale, in quanto, ricorrendo alle parole di un noto diplomatico, la lingua è stata data ai diplomatici solo per non dire la verità.
Noi ci riuniamo invece per altri scopi. Ci riuniamo per parlare senza mezzi termini. La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché esso diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano dei rischi.
Il tema dell’incontro di oggi è ben definito ormai: «Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole?». Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali (…). Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda guerra mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che «i padri fondatori» di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di «spremere fino all’ultimo» ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.
L’ARROGANZA DEI VINCITORI
Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza (…). Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della «Guerra fredda», hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio.
La «Guerra fredda» è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di «pace», con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della «Guerra fredda» abbiano deciso di «sfruttare» fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo (…).
Il concetto stesso della «sovranità nazionale» per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. (…). Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di «infra-diritto» (…). Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto «grande fratello» spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati.
Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo (…). Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela?
Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.
LOTTA COMUNE AL TERRORISMO
Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali (…). Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al Qaida. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei Paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 settembre.
Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida (…). Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Irak sia in Libia. Quest’ultimo Paese, tra l’altro, (…) ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo Paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari Paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito? Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, (…) ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra.
Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Irak, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti (…). Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.
IL BIPOLARISMO «COMODO»
L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, (…) è efficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi (…) e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui Paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi.
Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più «comodo» per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del «centro del male» che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio «a sostegno di», ma «contro»; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della «Guerra fredda», per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat (…). Durante la «Guerra fredda», agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva, ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale (…). Tuttavia il mondo è cambiato (…).
SANZIONI CON IL BOOMERANG
Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del WTO, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali (…). A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo. Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un Paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica (…). La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei Paesi leader.
Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni (…). L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia. (…).
Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei Paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei «continenti» storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali.
Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa. Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i Paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco (…). È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza «doppi standard». Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i Paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto «primo colpo disarmante globale». In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.
Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri «colleghi» hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le «rivoluzioni colorate», ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del «caos controllato» (…). E il caos globale aumenta.
Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i Paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali. Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? (…) Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile (…). Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati (…). Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda guerra mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni (…). Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia (…).
IL CASO UCRAINA
Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea erano pregni di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi Paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile. Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che «producono a macchia» una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi ( ).
Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo, cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo. La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica (…). La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata (…). Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la «Guerra fredda» i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarli. Nel caso contrario le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale (…). Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda guerra mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni 1970 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova tappa di sviluppo.