Ecco: ci risiamo. O potremmo riesserci. Noialtri occidentali, che magari non saremo felici (la felicità non si compra) ma che comunque apparteniamo a una società ricca, democratica (più o meno), avanzata, mediamente longeva e perfino colta o sedicente tale, di solito ci crediamo fuori dal gorgo crudele della storia che pure, almeno fino a qualche decennio fa, non è stata tenera nemmeno con noi. Le guerre, le carestie e le epidemie – ricordate i vecchi Cavalieri dell’Apocalisse? – sono ormai roba che una volta angustiavano i nostri antenati e ora gli altri, i popoli di altri continenti. Altri tempi, altri luoghi: sempre insomma gli “altri”. Noi non c’entriamo.
E invece no. Basta un nonnulla e ci rendiamo conto che davvero il passato non passa mai e che in tempi di globalizzazione è diventato molto più vero di prima l’antico adagio che “tutto il mondo è paese”. I cicloni, gli tzunami, le eruzioni vulcaniche, i terremoti e le inondazioni che anche ultimamente (si pensi alla nostra Genova) hanno colpito il pianeta nel quale abitiamo ci hanno messi di nuovo di fronte alla terribile maestà di una natura che di solito c’illudiamo di aver domata e di padroneggiare; e l’invasione recente di una frotta di 35.000 poveri trichechi in Alaska, che il surriscaldamento – in parte forse dovuto all’uomo – ha scacciato dal loro habitat, ci ha richiamato alla dura verità che alcuni tra gli stessi esiti della nostra pretesa onnipotenza tecnologica possono rivolgersi contro di noi. E lasciamo da parte la guerra, questa nostra millenaria compagna, che di recente – magari sotto forma di attentati terroristici – è tornata a lambire quello stesso Occidente che si era illuso di esserne ormai fuori fin dal ’45 e al massimo di dover andarla a combattere in casa altrui. Nonché le migrazioni di popoli, che a molti hanno richiamato, magari con qualche esagerazione, l’immagine delle antiche “invasioni barbariche”
Ma fra tutti i revenants – letteralmente, “gli spettri che ritornano” -, il più inquietante anzi pauroso è quello della pandemìa, del contagio progressivo e inarrestabile che deve compiere il suo ciclo e che non si esaurisce se non ha profondamente colpito e sconvolto tutti i popoli, senza arrestarsi dinanzi a nulla, né ai mari né alle montagne. Da essa nascono le sconvolgenti immagini del “Trionfo della Morte” e della “Danza macabra”, con i loro scheletrici protagonisti in atto d’insidiare, atterrire e perfino grottescamente sedurre tutto il genere umano, dagli imperatori e dai papi fino ai miserabili ma anche alle belle fanciulle e ai teneri infanti. La Morte che non concede quartiere a nessuno, che non si lascia né muovere a pietà né corrompere. L’immagine riflessa della nostra fragilità e della nostra disperazione.
Ne hanno parlato tutti, perché le malattie contagiose sono tanto antiche quanto tremende. Le frecce di Apollo “sminteo” (il “Signore dei Topi” sui quali cavalcano le pulci portatrici del bacillo) nell’Iliade; la “peste di Atene” al tempo di Pericle, di cui parla Erodoto; quella di Giustiniano nel VI secolo, descritta da Procopio di Cesarea; la “Morte Nera” del 1347-52, magistralmente evocata da Giovanni Boccaccio che fortunosamente l’attraversò; quella del 1630, che riempie di sé le pagine più drammatiche di Alessandro Manzoni; e infine le immagini esistenziali e metastoriche dell’epidemia descritte da La Peste di Albert Camus e dal film Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. L’universale pandemia che meglio di qualunque altra sciagura sembra prefigurare l’immagine della “fine del mondo”.
Ovviamente, nel tempo abbiamo definito “peste” malattie in realtà diverse da quella vera e propria, nelle due versioni “polmonare” e “glandolare” (“inguinale” o “bubbonica”) provocate dal batterio pasteurella pestis, o yersinia pestis, sino alle febbri di varia origine – sovente tifoidea – con le quali esse sono state nel tempo confuse. Ma se la peste vera e propria restò in effetti endemica in Europa tra XIV e XVII secolo, e molto più a lungo in Asia, ad essa nel tempo si aggiunsero altre epidemie non meno pericolose e letali, dal vaiolo al colera fino alla “spagnola” del 1918, della quale sta per ricorrere il centenario.
Da allora, di tanto in tanto siamo stati attraversati da “grandi paure” per epidemie che di solito si sono rivelate dei falsi allarmi, come l’”asiatica” o la “mucca pazza” di qualche anno fa. Ma un incubo più durevole, e giustificato, è stato e resta quello del virus hiv, che divenendo attivo provoca l’epidemia di aids i primi casi della quale furono segnalati a Léopoldville in Congo (oggi Kinshasa) e che è arrivata a 76 milioni di casi.
E’ l’Africa, che ci ha nel tempo regalato la forza-lavoro dei suoi schiavi e dalla quale oggi le lobbies multinazionali drenano i tesori che ci fanno ricchi mentre la maggior parte dei suoi abitanti sopravvive sotto il fatidico livello dei due dollari giornalieri, ad essersi vendicata su di noi con l’aids e a continuare adesso a vendicarsi con l’ebola, il virus segnalato per la prima volta nel 1976 nel bacino del fiume congolese che le ha dato il nome, l’Ebola.
C’è una vignetta che in questi giorni sta facendo il giro del mondo: il volto nero di un africano, dai tratti indistinguibili ma dagli occhi minacciosi, accompagnato dalla scritta “Vi siete dimenticati dell’Africa, ma l’Africa non vi dimentica”. E’ una frase terribile, che richiama certi proclami dei guerriglieri jihadisti del Mali settentrionale o del delta del Niger. E non a caso, cominciano a circolare sinistre voci, auguriamoci infondate, che associano il diffondersi dell’ebola a una sorta di “vendetta virale” escogitata dagli estremisti islamici contro l’Occidente. Anche in ciò, badate, nihil sub sole novi: nell’Europa del 1348 e del 1630 si parlò di una congiura di criminali (ebrei, saraceni e stregoni nel primo caso; “untori” nel secondo) intesa a diffondere il contagio per mettere in ginocchio la Cristianità.
E torna l’espressione fatidica: il ”Male assoluto”, identificato dopo il 1945 nel razzismo nazista e quindi dalla propaganda reaganiana degli Anni Ottanta nel sistema sovietico e da quella bushista dei primi del nostro secolo nell’Islam allora definito “fondamentalista”. Si ricorderà forse come Massimo Cacciari rispondesse a quei tentativi di assolutizzazione etica identificando con un gioco di parole il “Male radicale” nella pretesa che alla civiltà occidentale fosse intrinseca una superiorità etica in grado di rendere ipso facto universali i suoi valori, e nel nome della quale sembrava ovvio demonizzare tutte le espressioni di civiltà fondate su valori differenti.
In effetti, la contingenza che viviamo in questi giorni sembra caratterizzata dal corto circuito tra due “Mali” entrambi ancora una volta secondo alcuni definibili “assoluti”: da una parte l’assalto jihadista dello “stato islamico” che riceve consensi dall’Africa all’Afghanistan; dall’altra quello virale che partendo dall’Africa minaccia ora di dilagare in America e in Europa. Nei prossimi giorni, i due “Mali” si contenderanno le prime pagine dei giornali e domineranno il piccolo schermo turbando i nostri sonni: e qualcuno sta già cercando di stabilire tra loro dei nessi non casuali, fino a coinvolgerli e a identificarli in una sola ipotesi complottistica.
Bisognerebbe invece non abbandonarsi a interpretazioni maniacali né sottovalutare né l’uno né l’altro di questi due “mali” (certo gravi, ma non assoluti), ma al tempo stesso non lasciarci neppure prendere dal pànico. Bisognerebbe mantenere la calma, ma non abbassare la guardia. Probabilmente, com’è accaduto in passato, né l’una minaccia né l’altra si rivelerà davvero letale. Il vero pericolo che incombe sulla nostra società civile, in questo contingente momento, è l’incertezza e il disorientamento. Jihadisti ed ebola catalizzano un groviglio di preoccupazioni che ha le sue origini nella crisi socioeconomica e in quella dei valori culturali che stiamo attraversando. Che sia proprio questa, in ultima analisi, la vera peste?