Pubblichiamo la premessa e il primo capitolo del nuovo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, “I cinque funerali della signora Göring”, edito da Mondadori (pp.180, euro 18). Un libro, una storia d’amore, che consigliamo a tutti i lettori di Barbadillo.it ***
Tutto comincia da una fotografia. Mentre scrivo non so ancora cosa deciderà l’editore, se pubblicarla qui di seguito, se farne addirittura la copertina. In ogni modo tutto comincia da questo scatto che, ai tempi, fu copertina di Life, la rivista americana dello Spirito del Tempo fascicolato nello charme.
Ecco, lei è bionda, è disinvolta ed è accomodata su una confortevole sdraio sul ponte di un piroscafo. Lei è la protagonista della scena mentre lui – pur essendo Lui – sembra stare in disparte malgrado tutta quella gente che, oltre la vetrata, dietro loro due, guarda, sorride e aspetta che la giornata abbia un compimento in ragione di ciò che deciderà Lui.
Tutto comincia da quest’immagine insolita rispetto alle canoniche rappresentazioni del Male.
È un frammento assai seduttivo, sostanzialmente proibito oggi e perciò irresistibile.
Io lavoravo alle Uova del Drago, la storia di Eughenia Lenbach. Era il romanzo al modo dell’Opera dei Pupi sulla giovane spia tedesca che rimase in Sicilia negli anni dell’invasione americana per preparare l’insurrezione del Mediterraneo contro gli Alleati. Avevo tanta documentazione e molto materiale fotografico su cui fantasticare quando, trovando la copertina della testata Usa, folgorato dalla presenza di questa signora non potei fare a meno di interrogarla (per come si possano fare domande a un pezzo di carta stampato), e dunque di chiederle lumi in tema di amore e donna, e da lì partire verso un altro racconto che solo adesso – a distanza di più di dieci anni – provo a dipanare.
PRIMO CAPITOLO
Ecco, invece, l’incredibile destino di una divinità del Male. Lei, la dea, in una sera nevosa di Svezia, il 20 febbraio 1929, scende leggiadra i gradini di una scala a chiocciola, incontra lo sguardo di un giovane uomo, un aviatore, e – in un solo istante – una storia di desiderio e morte si svela nel suo cuore:
“Siamo come Tristano e Isotta. Abbiamo gustato la pozione d’amore e ora siamo inermi, indifesi sotto il suo effetto estatico”.
Una donna incede, dunque; e dal pianerottolo arriva nel salotto, premurosamente rimproverata dai suoi cari, la sorella Mary e il cognato, il conte Eric che le offre una tazza di latte caldo.
È un giunco, è bionda, ha gli occhi azzurri. Trattiene un urto di tosse e sorride. Ha passato metà del pomeriggio sulla torre di avvistamento del Castello di Rockestald.
L’altana è interamente ingombra di neve e lei, coperta da un mantello incrostato di cristalli raggelati, vi è rimasta fino allo spegnersi delle luci di posizionamento del lago Bavensee, interamente ghiacciato e usato come pista d’atterraggio. La sua condizione di salute, invero fragile, non glielo consente. I venti che calano potenti dalle foreste urlano con la tormenta. Gli alberi se ne stanno issati sulle rupi che scivolano fino al limitare dei bastioni, e pietre e fronde vibrano con le nubi frustrate dalle ali di ferro, olezzanti di nafta.
Desiderosa di sogni, lei non vuole perdersi lo spettacolo degli aeroplani in cielo.
Ecco, ce n’è uno in volo. Lei lo segue nelle virate. Tutta quell’acrobazia resa obbligata dalle correnti, in cielo, le si stampa in volto. La raggiera delle sue emozioni è come una mappa. L’aereo, dunque. Lo attende durante la discesa, ne calcola i tempi – per il contatto, per la frenata, per tutto il polverio che s’alza dalle ruote.
Innamorata di quella diavoleria, lei resta a guardare finché, esauriti i giri d’elica, gli uomini di servizio corrono incontro al velivolo dal castello. Vanno ad accogliere il padrone giunto dal suo viaggio. La luce si spegne e lei resta a osservare quell’aereo pitturato nell’argento algido di un giorno rigido prossimo a essere inghiottito dalla più inclemente delle notti.
Turbata dalla ferraglia che smette l’ultimo nitrito in uno spegnersi di fumi, lei – la dea – rimane a guardare il pilota. Questi, sporco di eroismo – abbuiato dalla fatica – prima segue lo scarico delle merci, dopo si attarda a preparare un riparo a quel destriero per poi incamminarsi verso la dimora dove gli è stato chiesto di restare a dormire.
Lei, la dea, è rimasta a vagheggiare a lungo, perfino quando anche l’aviatore, trascinandosi dietro le taniche di carburante, ha attraversato la corte del castello ed è stato accolto dal suo facoltoso cliente e da Mary, la sorella rassegnata per quel latte ormai freddo, dove il miele, precedentemente sciolto, s’è raggrumato fino a disegnare un ghirigoro nella tazza.
“Gli uomini sono stati plasmati nel fango, i cavalli nel vento, e gli aerei – i nostri ippogrifi – sono stati creati con la materia delle stelle” dice lei a chi la supplica di ritirarsi al riparo, nelle stanze riscaldate dalle stufe.
E’ successo che Eric von Rosen, reduce da una spedizione sul Gran Chaco, è appena atterrato. Eric – conte, milionario e viaggiatore indomito – prima di arrivare alla propria residenza ha incontrato un aviatore disposto a sfidare una terribile tempesta di neve nell’ultimo tratto di cielo. Il pilota lavora presso la Svenka Lufttrafik. Dall’ultima base aerea si sono tutti rifiutati di accettare la paga del capriccioso conte e sedersi alla cloche. Tutti, eccetto lui. E’ giovane eppure è già veterano del volo. E’ un capo pilota cui le clausole della pace di Versailles hanno tolto il nido, la Luftwaffe.
Quarta di cinque figlie del colonnello comandante di reggimento, il barone Carl von Fock, la donna – di sangue irlandese per parte di madre – si prende la scena: si libera del vasto mantello e lo avvolge al braccio senza per questo impedirsi di porgere la propria mano da baciare al giovane, la cui giubba è senza più mostrine ma con tanta guerra addosso.
Scioglie i capelli, la donna. Lo fa per il ragazzo, come per un istinto da preda. Riconosce in lui, nel biondo atleta del cielo, la sua stessa maligna natura. Nel tendere il braccio segna una distanza. È già una schermaglia.
Un colpo di tacchi e lui, soldato rodato alla scuola dell’aviazione, decorato con la Croce di Ferro, la Pour le mérite, nel chinare di scatto il capo, offrire il bacio e sciabolare il più spavaldo dei sorrisi, sente dilagarsi addosso “il fulmine”.
Poco prima, hanno fatto le presentazioni:
“Capitano Hermann Wilhelm Göring, già comandante della squadriglia Richthofen-Geschwader”.
Lei, ancora col tabarro a farle da incomodo, con la mano nel baciamano del militare, è introdotta alla conversazione dal conte:
“Le presento mia cognata Carin, baronessa von Kantzow”.
Un bambino si avvicina festoso alla donna. La travolge ma è subito acciuffato dalla nutrice, che lo prende in braccio, lo solleva e gli consente di dare un bacio alla mamma e correre subito a letto.
La prima frase che la donna dice all’uomo che le cambierà la vita è questa:
“Mio figlio, il mio piccolo Thomas. Perdonatelo se è così eccitato. Ha saputo dell’aereo mirabilmente atterrato sul lago ed è stato difficile tenerlo a freno”.
Mary invita tutti a tavola.
Ci sono le altre sue sorelle, Fanny, Elsa e Lily, e con queste i loro figli e i loro mariti.
Nils Gustav von Kantzow, lo sposo di Carin, non c’è. E’ in città per i suoi complicati affari. C’è Carl-Gustav von Rosen, il figlio del padrone di casa: appassionato di volo, futuro fondatore dell’aeronautica etiopica. Non ha attenzioni che per il capitano.
Hermann è accolto nella magione dei von Rosen al pari di un campione. E tale è in quell’arte nuovissima che è il volo. Alla fine del pranzo – durante il quale la donna si è limitata a non degnarlo, se non di un vago sguardo, ricambiato – viene introdotto nelle stanze del castello decorato con armature e armi di foggia cavalleresca.
Le mura di Rockelstad quasi sembrano sussurrare le saghe medievali. E mentre i torrioni accolgono altra neve, nelle sale, Herman – su richiesta del conte, l’avventuroso esploratore – acconsente di indossare una corazza e l’elmo. Tutti applaudono spiritosamente, e in effetti sul portamento alto, solido e snello di Hermann si disegna la trasfigurazione di un cavaliere remoto. Così lo vede Carin, che comincia a non saper più sostenere il proposito di distacco e noncuranza; e tutto, anche agli occhi del capitano, preso da quel fulmine che gli fabbrica in petto uno struggimento, è magnifico.
La serata, ormai, è una festa. Hermann è considerato un intimo. Rapiti da un’atmosfera di convivio e allegria, i membri della famiglia von Rosen ingaggiano con l’ospite un torneo di saghe e canti epici. Il giovane capitano presenta agli svedesi i lari della sua Germania: le strofe e i versi della notte di Sigfrido; e agli occhi di Carl-Gustav è già un merito per farlo entrare nella Cappella Edelweiss, dove un altare eretto nella stanza della torre assolve a un rito privato introdotto in quella contrada da Huldine, la madre di Carin, la cui radice d’Irlanda innesta in Svezia il seme di un segreto per lo splendore di Brahma, per il culto del sole: “In direzione del Nord, il più puro germanesimo”, spiega Carl-Gustav.
La seconda frase all’uomo che le cambierà la vita, Carin gliela dice proprio sulla soglia della Edelweiss. Riconoscendo infine nel capitano il protagonista di una vicenda amorosa raccontata dai rotocalchi, la domanda puntuale che gli rivolge, con trattenuta civetteria, è questa:
“Avete davvero dimenticato Kathe Dorsh? E’ così bella, è così affascinante quella donna, è così raffinata. L’ho sempre ammirata. La invidio, perfino. Ha la mia stessa età: trentadue anni. Ho avuto il privilegio di applaudirla a Stoccolma. Non posso credere che l’abbiate cancellata dal vostro cuore”.
Il combattente nella leggendaria squadriglia del Barone Rosso, il su erede, l’eroe applaudito in ogni angolo degli ex Imperi Centrali, ormai costretto – appena ventisettenne – a fare il pilota della Svenka Lufttrafik, aveva ferito il cuore della Dorsh e n’era rimasto sfregiato. Un’attrice tanto acclamata quanto compatita per via del doloroso morire del loro amore, tanto stremata lei e sconfitto lui, da costringersi a trovare riparo, lei negli Stati Uniti e lui, povero e senza più beni, in Scandinavia.
“Adesso, in questo stesso istante, non è più così”, risponde Hermann, mentre inchioda i suoi occhi negli occhi di Carin. “Adesso ho un fulmine che mi prende nelle carni e nel fiato”.
Ed è questo che le dice nel tempo in cui, dopo tanto non degnarsi durante il pranzo, le confesserà l’urgenza di amarla. Le parla davanti al fuoco gigantesco di un grande camino quando, dopo l’allegro pranzo, al termine della reciproca finzione, la reclama a sé. E non per una passione improvvisa, no: per amarla come mai lui aveva capito si possa amare. Le parla, con voce roca, armeggiando gli alari ornati col simbolo di Shiva su cui s’accatastano i ciocchi. Le parla, e tutto, in loro, prende fuoco.
Incurante di tutto, tornando ancora dentro la Cappella, tenendola a sé, mentre le fiamme del camino gareggiano col chiarore dei candelabri, Hermann le rivela il suo sentimento:
“Tutto è tranquillo e bello. Ho dimenticato ogni strepito terreno. Tutte le preoccupazioni sono scivolate via. La mia vita scorre là dove c’è, Carin, il vostro respiro. Siamo come Tristano e Isotta”.
Parla, Hermann. Incurante che l’eco della sua stessa voce, dal timbro di acciaio e vampa, sotto le alte volte del castello, riveli agli altri ospiti, in casa, la sua intenzione già diventata decisione.
Parla, Hermann. Incurante che la donna, cognata del padrone di casa, possa essere messa in imbarazzo, per di più da qualcuno cui è stato offerto il riparo, un vetturino quasi, un semplice conduttore di taxi, sebbene volante.
“Voi mi amate, io vi amo, vi voglio”.
Così dice il giovane soldato tedesco alla signora, e Carin, sottraendosi alle mani di lui, avvolgendosi in uno scialle che possa contenere il tuono nel proprio petto, pur madre e già moglie di un altro uomo, buca con lo sguardo quell’altro sguardo, ormai rapace solo di lei, e ne sbaraglia ogni ulteriore parola:
“Sono io ad amarvi. Io. E vi insegnerò ad amarmi come mai avete potuto pensare di attraversare il sentimento bello, bellissimo di luce. Sono io ad amarti. Io”.
Ed è lei che bacia, di un bacio di brace e febbre, lui.