Il santo perde se stesso tramite l’idiozia incontrollata della folla che lo venera. Napoli è piena di santi e martiri, piena di reliquie, è l’unica città che ha il sangue a interruttore che si raggruma e scioglie, in date precise, quello del suo Santo Maggiore, quel Gennaro che solo una volta fu sostituito da Sant’Antonio per via dei francesi, accusato d’essere giacobino. Un titolare incontrastato che ha proiettato sulla città tutto un alfabeto poi divenuto linguaggio, antologizzato, usato, ridotto in scala e venduto, trasformato in metafora e interiorizzato per superare il quotidiano. Insomma il sangue che si fa rivolo e vita, amuleto, speranza apotropaica, persino corpo esterno, fino a dimenticare che è in noi, quasi fosse lavato come quello di un omicidio. Un omicidio, appunto.
Dove però il sangue è porta chiusa per sempre e non simbolo di vita, speranza non c’è, nemmeno possibilità di sequel, anzi è l’esistenza di un giovane cronista che viene spenta, non c’è miracolo, persino assenza di normalità, ci fosse stata la presenza di quest’ultima lui non sarebbe morto, non sarebbe solo e lì, non sarebbe e invece è presente e si prende le pallottole, e il suo sangue viene versato, per noi, per tutti, in nome di una religione che non esiste e che riduciamo per convenzione a giustizia, che racchiudiamo sotto questo nome.
Il nostro cronista ha un mezzo, una quasi corazza che diviene bara: la sua auto, un modello strano, aperto: senza vetri, senza tettuccio, solo struttura esile, che si presta come il sangue alla metafora, in una città che sappiamo amare il genere.
Il ragazzo muore, ucciso da un male per brevità chiamato Camorra, l’auto viene ripulita e anni dopo usata come reliquia, portata in giro per le strade della città, ripercorre il tragitto che il cronista faceva da casa sua al suo giornale, in una ideale rivisitazione, un sequel, appunto, e si chiama a dare vita a questa rivisitazione quella che si crede una figura degna, vista addirittura come proiezione, che ha tutto un alfabeto poi divenuto linguaggio, antologizzato, usato, ridotto in scala e venduto, trasformato in metafora e interiorizzato per superare il quotidiano.
Insomma, quella figura che era sangue viene ripulita, come l’auto, come il cronista e prima come il santo. Si fa rivolo e vita, amuleto, speranza apotropaica, persino corpo esterno, fino a dimenticare che è in noi, quasi fosse lavato come quello di un omicidio. Un omicidio, appunto. In una auto. Che andava lasciata dove era la sera di quell’omicidio, non andava ripulita. Perché era l’unica presenza possibile, un oggetto divenuto vegetale. Proprio perché teatro di morte, bagnato dal sangue, divenuto vaso, contenitore di vita. Perché come non bisognerebbe abbattere le statue dei dittatori quando questi scompaiono, perché è nello spavento che sta il mondo, e nella memoria del terrore che si lascia intatto il ricordo.
Perché spostare significa perdere il controllo, rinunciare al peso. Sarebbe diventato un altare? Sì, meglio altare che reliquia, meglio tempio che vessillo, perché quell’auto lasciata sotto la casa di Giancarlo Siani, e senza la processione – rito d’assenza con Saviano – avrebbe rappresentato il tempo, il suo, immobile, fermo. Spento, abbattuto. E, l’auto, una mehari, aveva il diritto di consumarsi, di logorarsi con quel sangue, proprio come si logora all’interno, il corpo di chi è ferito a morte da quell’assenza.