“Non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire”. La preoccupazione per chi si accosta alla esposizione su Warhol senza mai aver letto di arte o studiato il personaggio in questione è superata dall’evidente semplicità con cui Warhol parla a chi lo osserva attraverso la sua opera. Banalità artistica per alcuni critici dell’arte, per molti altri invece specchio della società di massa, che penetra dalla strada nella politica e nella produzione artistica.
L’esposizione su Warhol arriva a Roma grazie alla Fondazione Roma e Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico-Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma, prodotta da Arthemisia Group e 24 Ore Cultura; portando con sé 160 opere provenienti dalla collezione della Brant Foundation. Peter Brant amico e collezionista di Warhol in circa quarant’anni ha accumulato il materiale in esposizione attualmente a Roma, cominciando nel 1967.
Note di sottofondo accompagnano il passaggio dei visitatori nelle argentee sale di Palazzo Cipolla; immagini che si ripetono, ma che cambiano sempre. Gli anni ’60 e ’70 con la loro trasgressione sembrano simboleggiate dai volti di Mao o della Monroe o anche di Elvis Presley, immortalati nel loro aspetto consueto, senza particolare attenzione per nessun dettaglio, come fotoritratto di una realtà, colta nell’attimo. La bellezza e la giovinezza di attrici ammirate, l’attrazione irresistibile della società dei consumi americana, in cui ricchi e poveri hanno gli stessi desideri e acquistano gli stessi prodotti, rappresentati dalle scatole di salsa di pomodoro Campbell; e la trasgressione nella serie non a tutti nota delle “Drag Queen di New York”, i primi “Flowers”, la spassionata ricerca di eguaglianza e accessibilità in luogo dell’esclusivismo.
L’arte di Wharol sembra ricavata dalla strada, dalla notte, dalle luci della trasgressione, con cui dovette fare i conti una vita intera ai limiti del collasso nervoso, dal richiamo magnetico della società democratica americana, dominata, seppur velleitariamente, dal “si può fare”, ancora oggi icona del governo Obama. Eppure alle spalle di questa stessa democratica America compare, di tanto intanto, il fantasma della morte, che se tenuto a distanza di sicurezza nella prima fase della sua vita, diventa una spada di Damocle dopo l’episodio del colpo di pistola infertogli da una collaboratrice della Factory.
La serie delle “12 sedie elettriche” o “skull” si riappropriano con finalità diverse di questo tema, per allontanare il momento finale apotropaicamente e perdersi nel “colore” di ciò che vive.
Tra le 160 opere si possono ammirare anche una serie di polaroid mai viste prima in Europa e ironici autoscatti. Come ha sottolineato il curatore dell’esposizione Filippo Bonami la mostra non vuole solamente rappresentare la celebrità che è divenuta Warhol, senza esprimerne anche l’intimità dell’uomo.
Un uomo, a detta dei tanti protagonisti della Factory, parsimonioso con alcuni, liberale con altri, con il fine dell’arte e la considerazione della ricchezza, tale da permettergli di condurre gli affari con estrema libertà. Perduto nella solitudine della società di massa crea “una grande storia d’amore”, che altro non è che il sogno americano di pensare di essere chi si vuole essere.
“L’ultima cena” ispirata da Leonardo conclude il percorso della sregolatezza, moderatasi negli anni, nella quale trovano sfogo quelle ferite irreversibili e inevitabili della sua anima, alla ricerca del migliore dei mondi possibili e spettatrice divertita e affranta soltanto di “un mondo”.