Per ora la pasta Agnesi sparisce dallo stabilimento di Imperia, destinato alla chiusura entro la fine dell’anno. Ma le prospettive sono pessime anche per il per ora sopravvissuto stabilimento di Fossano (Cuneo): uno dei marchi storici della pasta italiana pare non avere futuro. A meno che, come è avvenuto per tanti altri marchi storici del made in Italy, la Colussi (attuale proprietaria di Agnesi) non trovi un acquirente. Ovviamente straniero, come capita ormai di continuo.
Perché a credere nei marchi italiani sono rimasti soprattutto gli investitori in arrivo da ogni parte del globo. Non è certo una novità. Lo smantellamento dell’alimentare italiano era iniziato già in ambito Iri, grazie a Romano Prodi. E l’attuale situazione non fa che confermare il trend. I grandi marchi famigliari sono passati di mano, dalla Martini % Rossi alla Cinzano, alla Gancia. Sono sbarcati in Italia i cubano-americani, gli olandesi, gli svizzeri, gli inglesi, i russi, i turchi, gli spagnoli e, naturalmente, i francesi ed i tedeschi. Dalla cioccolata ai formaggi, dall’olio alla pasta.
Quando i nostri coraggiosi capitani d’industria annunciano che i costi sono eccessivi e non è più possibile produrre in Italia, subito arrivano gli stranieri che mettono sul tavolo il gruzzoletto e rilevano l’azienda che, ovviamente, continua a produrre in Italia con i costi italiani. Perché il made in Italy ha un valore se è prodotto in Italia. Certo, i prodotti taroccati si moltiplicano, in tutto il mondo. Ma il valore aggiunto, quello che spinge gli investitori stranieri a comprare i marchi, è proprio l’italianità della produzione, l’origine della materia prima.
Cioé proprio quello che i nostri capitani coraggiosi hanno sempre negato. Perché la pasta italiana è ormai ottenuta, per il 50%, da grani che italiani non sono. Canadesi, ucraini, kazaki. C’è solo l’imbarazzo della scelta. E le olive per l’olio italiano? Arrivano da Spagna, Grecia, Tunisia. E son turche le nocciole per le creme spalmabili (con nobili eccezioni, ovviamente segnalate in etichetta, da parte di chi paga di più per utilizzare nocciole piemontesi) mentre il prosciutto si ottiene con maiali olandesi e i formaggi con latte ungherese.
L’importante è fare i furbi. Risparmiare sulla materia prima, spacciando il prodotto come italiano perché i macchinari per imbottigliare o per realizzare la pasta sono collocati in Italia. Gli stessi macchinari che vengono utilizzati altrove, ovviamente. Ed allora bisogna sperare negli investitori stranieri per tutelare le produzioni tipiche. Perché la Pernigotti, diventata turca, ha subito confermato l’acquisto di nocciole piemontesi. Ed i grandi operatori multinazionali degli spirits imbottigliano, in Italia, anche supercoolici stranieri. A dimostrazione che in Italia si può produrre, persino ciò che non è italiano.