Anche se la diretta interessata ha rinunciato, per lodevole understatement, a pubblicarla e commentarla nella rivista online da lei diretta (totalita.it), la notizia della bocciatura di Simonetta Bartolini al concorso per professoressa associata ha avuto larga eco, soprattutto per la sua motivazione. Questioni di scientificità – sempre fatalmente opinabili, specie nelle facoltà umanistiche – a parte, i suoi titoli sono stati ritenuti inadeguati anche perché i suoi studi sarebbero stati rivolti in prevalenza ad autori facenti parte del patrimonio ideologico della destra, con intenti ritenuti “revisionistici”.
Che Simonetta abbia dedicato buona parte delle sue ricerche a questi autori e in particolare ad Ardengo Soffici è indubbio. Oltre tutto nelle sue ricerche ha potuto godere di un’invidiabile rendita di posizione: suo padre, Sigfrido, pittore, incisore, scrittore e polemista, è stato l’ultimo “sofficiano” e nella sua abitazione di via di Bigiano a Pistoia, oggi sede della Fondazione intitolatagli, custodiva un prezioso archivio di materiale inedito e rare pubblicazioni del maestro. Ricordo ancora con gratitudine la generosità con cui Sigfrido Bartolini nel lontano luglio del 1979 mi consentì di accedere al suo archivio-mansarda per integrare un mio saggio su Soffici e le riviste fiorentine fra le due guerre che sarebbe confluito nel volume collettivo “L’uomo del Poggio” pubblicato da Volpe in occasione del centenario della nascita del grande artista e scrittore.
Che avere indirizzato i propri studi in prevalenza verso autori di destra costituisca una colpa tale da giustificare in tutto o in parte la bocciatura a un concorso a cattedre è però quanto meno opinabile; e questo spiega le critiche suscitate dall’esclusione anche da parte di giornalisti che nella destra non si riconoscono.
È necessaria tuttavia una precisazione: la pratica della discriminazione ideologica non è certo una novità nel mondo accademico, così come l’ostracismo a determinati autori e persino editori. Gli esempi che si potrebbero addurre sono innumerevoli. Alfredo Cattabiani – un uomo che negli anni Settanta come inventore della Rusconi Libri regalò una biblioteca alla destra, e che la destra vent’anni dopo avrebbe lasciato morire povero – mi raccontava l’ostracismo alla sua tesi di laurea su Joseph de Maistre da parte di Norberto Bobbio. Renzo De Felice scontò con la bocciatura al concorso per la libera docenza l’ingenuità di aver citato in una nota a piè di pagina della sua storia degli ebrei italiani durante il fascismo, fra i partecipanti a un convegno sulla razza, un consigliere di Stato che poi sarebbe divenuto segretario del Partito radicale. L’autore di uno dei più innovativi saggi sull’ideologia del fascismo, negli anni Settanta, avrebbe dovuto pubblicare il suo studio con l’editore Giovanni Volpe, ma questo gli avrebbe pregiudicato la carriera accademica; di conseguenza, con scelta sofferta, optò per il Mulino. Donde il comprensibile risentimento di Giovanni Volpe, figlio dello storico Gioacchino, un grande mecenate che, con una certa caduta di stile, gli rinfacciò di avere finanziato, ospitandolo fra l’altro in casa sua, le sue ricerche di studente povero.
Il professor Mario Sechi (omonimo del giornalista e da non confondersi con lo storico Salvatore, battagliero membro della commissione Mitrokhin) non ha dunque inventato proprio nulla; piuttosto ha commesso l’ingenuità di esplicitare motivazioni che in altre sedi sarebbero rimaste implicite. E questo lo rende quasi simpatico. Una vecchia e un po’ dozzinale barzelletta racconta di un bagnino che rimprovera un cliente perché sta facendo i bisogni in piscina. “Ma se lo fanno tutti…” ribatte il bagnante. “È vero – replica il bagnino – ma non dal trampolino.”
L’università non è una piscina, ma sarebbe gradita lo stesso un po’ di eleganza.