L’opera letteraria nasce dalla combinazione di tanti elementi, complessi ed eterogenei: se tutte le parti si uniscono armoniosamente e con naturalezza, ne risulta una lettura gradevole, stimolante e, in certi casi, perfino illuminante. Gli elementi narrativi, come la trama o l’intreccio, quando siano ben oliati, contribuiscono certamente al felice risultato: tuttavia, pur raccontando, a un dipresso, le medesime cose, il canto di Paolo e Francesca e la solita canzoncina su di un’avventurazza extraconiugale rappresentano traguardi artistici altamente differenti. Lo stesso dicasi per quanto riguarda lo stile: una cura maniacale nella limatura formale di un romanzo può tranquillamente generare un forbitissimo e indigeribile mattone. Per quanto lustro esso possa apparire, sempre di laterizio si tratta. Dunque, ci vuole capacità alchemica, doppiata da sensibilità, da sentimento delle cose, per fare un buon libro: e più ancora, applicazione ed esercizio, e volontà di raccontare bene e pianamente, e avere, infine, qualcosa da dire. In questo romanzo di Gabriele Marconi, questo complicato traguardo è stato raggiunto. La trama e l’intreccio, trattandosi di un seguito (seppure autonomo nello svolgimento e nella vicenda raccontata) del romanzo precedente, “Le stelle danzanti”, hanno potuto contare su di un meccanismo rodato: i due protagonisti, Giulio e Marco, che erano diventati amici a Fiume, durante la gesta dannunziana, adesso si ritrovano in Spagna, nel corso della Guerra civile. Il romanzo appare diviso in due da una cesura, non brusca ma determinante: nella prima parte, ci troviamo di fronte a una di queste, un viaggio avventuroso per salvare un caro amico, minacciato di morte. Nella seconda, invece, l’elemento epico (perché di racconto epico parliamo, e non semplicemente di romanzo storico) lascia il posto alla tragedia, incombente e poi implacabilmente manifesta. In effetti, in tutta la narrazione, una sorta di convitato di pietra assiste impassibile allo scorrere degli eventi: l’idea ossessiva della morte, che, a tratti, appare, a scandire momenti di goliardia o di pura azione. E’un libro meditato, “Fino alla tua bellezza”, perché dà l’impressione che i casi della vita e il trascorrere del tempo abbiano dato a Marconi un piede più lento, solenne, sofferto, che nei suoi romanzi precedenti era meno visibile, eclissato dall’incalzare degli eventi. In fondo, l’idea che ci si forma, dopo la lettura di entrambi i romanzi di questa saga, è che essi rappresentino, più che un’opera di fantasia o di avventura, una specie di Bildungsroman: la storia della formazione spirituale e umana dei protagonisti. E, verosimilmente, di Marconi stesso. “Fino alla tua bellezza” è senza dubbio un’opera ben costruita, sotto tutti i punti di vista. La lettura è piena e avvolgente, ricorda Il Sangue morlacco, il liquore bevuto alla mensa di Fiume: la parola è scelta con cura, senza indulgenze verso barocchismi e capriole stilistiche. I personaggi sono ben delineati, interagiscono in maniera credibile e vivono esistenze autonome. La storia è perfetta: quello che la determina è, piuttosto, l’universo in cui si muovono i protagonisti, la loro vista sul mondo, la loro anima, per così dire. Non si trovano marionette in questo libro: non c’è un demiurgo che muove le fila, antipaticamente onnisciente, dicendoti di guardare bene questo e quello, come troppo spesso accade in tanti romanzi italiani. E’ una storia raccontata senza mediazioni, come quando, intorno a un tavolo, dei vecchi amici rievochino aneddoti lontani nel tempo. Un pezzo di vita, insomma, sazio di verità e di valori. E ha una qualità importantissima per un romanzo: alla fine, ti lascia un pochino più ricco, un pochino meno solo. E già questo merito è poesia.
*da Il Foglio