Federico II di Svevia, figlio di Enrico VI e della principessa normanna Costanza d’Altavilla, imperatore e sovrano di Sicilia, è uno di quei personaggi storici che non cessa di far discutere accademici e appassionati dell’Età di Mezzo. “Stupor Mundi”, “Puer Apuliae”, ultimo grande sovrano del Sacro Romano Impero o anticipatore dello Stato moderno, uomo dalla mentalità prettamente medievale o precursore della cultura rinascimentale, lo Staufen è uscito dall’ambito prettamente storico per diventare di volta in volta un simbolo, un archetipo, un mitomotore sempre più interpretato (e abusato) alla luce delle ideologie contemporanee.
Il volume “Federico II di Svevia Rivoluzionario o Conservatore?”, con la prestigiosa prefazione di Don Nicola Bux, di Luca De Netto, giovane giurista e studioso salentino, ha il merito di uscire dagli schemi precostituiti e dagli stereotipi per rileggere in modo originale la figura del sovrano svevo. Basato su un’attenta rilettura delle fonti e corredato da un solido apparato bibliografico, il libro (edito da “Il Cerchio”, tradizionalmente attento verso i temi della cultura non conforme e dell’identità europea) la ricolloca nel giusto contesto della cultura cristiana e imperiale del suo tempo.
Il concetto federiciano di Impero, lungi da qualsiasi visione di cinica realpolitik, secondo De Netto è eminentemente religioso e sacrale. Re, Legislatore e Giudice in un’epoca di teocentrismo, Federico non esita a perseguire l’eresia contro la Fede vista come crimine di lesa maestà; tuttavia, da vero ultimo imperatore dei Romani, in nome della parità delle due spade, quella del Princeps e quella del Pontifex, i due soli secondo la visione dantesca, si oppone alle pretese teocratiche del Papato, ed ai Comuni e alle spinte centrifughe nel Regno in nome di una pluralistica “ordinatio ad unum”, regnando in nome del diritto divino e naturale secondo i concetti di Pace, Giustizia e Bene Comune; sviluppa rapporti con il mondo ebraico e quello islamico improntati, più che a un’idea moderna e ambigua idea di tolleranza, a una coesistenza pacifica e di rispetto reciproco tipici dell’ecumenismo imperiale.
Il Federico di Di Netto in definitiva non è né il campione dell’assolutismo laicista ed illuminato, il promotore di un regime statolatrico tipico di una certa visione moderna come voleva il Kantorowicz, né il machiavellico difensore degli interessi privati del suo casato secondo l’interpretazione di Abulafia, ma il supremo rappresentante di quel Medioevo che, per usare le parole dell’autore, contro ogni leggenda nera di stampo illuminista e giacobino, fu una “grande epoca di giustizia, di certezze, di valori, di fede, di luce, di ordine, di libertà e di pluralismo”. Valori eterni per un’Europa alla disperata ricerca di radici spirituali.
Interessante l’ipotesi finale dell’autore: la scomunica comminata da Innocenzo IV, pronunciata in violazione delle procedure canoniche, potrebbe un giorno essere dichiarata invalida, riconoscendo nuovamente a Federico gli appellativi di “figlio diletto della Chiesa e propugnatore della Fede”, per usare le parole del cardinal Nicola Cusano.