In questi giorni, ricorre l’anniversario della Battaglia di Santa Clara, una delle più importanti del XX secolo in tutta l’America Latina, la quale ha segnato la sconfitta delle forze governative e la vittoria decisiva della Rivoluzione Cubana.
Di tutte le città cubane, Santa Clara – insieme a Santiago – è quella che reca in maniera più marcata l’eredità della guerra rivoluzionaria. La sua posizione è strategica: si trova sulla principale strada che dall’Avana conduce ad Oriente, in un avvallamento in mezzo alle colline, a metà strada tra la costa settentrionale e il massiccio selvoso dell’Escambray, che incombe sulla costa meridionale. Tuttora la sua fama si deve ad un solo evento: la battaglia che vi infuriò negli ultimi tre giorni del 1958.
Il momento storico era favorevole: Batista aveva sconfessato i risultati delle elezioni che era stato costretto a tenere a novembre, dietro pressioni statunitensi, ed era stato scaricato dai suoi stessi protettori. I focolai di guerriglia costituiti dal Movimento 26 Luglio nella Sierra Maestra, dal Direttorio Rivoluzionario 13 Marzo nell’Escambray e dalle organizzazioni sindacali e studentesche nelle città stavano mettendo a dura prova l’apparato repressivo del regime militare.
Ad agosto, Fidel Castro aveva lanciato una controffensiva generale su tutti i fronti: mentre lui e suo fratello Raúl avrebbero attaccato i grandi centri nell’Oriente dell’isola, Ernesto Guevara e Camilo Cienfuegos avrebbero guidato le loro colonne verso la parte occidentale, fino all’Avana. Ad ottobre, le forze del Che hanno raggiunto l’Escambray, a sudovest di Santa Clara, dove hanno stabilito una base logistica. Nei mesi successivi, riesce a tagliare le comunicazioni tra una parte e l’altra dell’isola.
Da metà dicembre, i centri minori della provincia di Las Villas avevano capitolato con le loro guarnigioni. Soltanto Santa Clara, il capoluogo nonché caposaldo militare sulla strada della capitale resisteva ancora, forte dei suoi cinquemila soldati, comandati dal Colonnello Joaquín Casillas, contro 320 guerriglieri veterani e un migliaio di volontari. Lo stato maggiore di Batista prevedeva di impegnare qui il grosso delle forze ribelli e di schiacciarle. La battaglia iniziò il 28 dicembre, quando la prima colonna delle truppe guidate dal Che si era attestata nell’Università, ai margini della città.
Ho trascorso a Santa Clara due giorni, nel luglio del 2009, sufficienti a percorrerla in lungo e in largo. Avevo letto il resoconto della battaglia scritto per mano di Guevara in persona nei suoi “Pasajes de la guerra revolucionaria”. Il regista Steven Soderbergh l’aveva poi ricostruita e immortalata con acribia filologica nella prima parte del suo monumentale dittico dedicato al Che. La realtà concreta del campo di battaglia, conservato nei suoi punti essenziali, superava e completava però questa conoscenza parziale.
In questa Stalingrado caraibica, disputata strada per strada per tre giorni, anche se le tramezze delle case, sfondate per consentire ai ribelli di avanzare al riparo, sono state ricostruite, i ricordi della Battaglia restano ben presenti, come parte integrante della viva quotidianità. Ci si rende perciò conto che solo percorrendo davvero i luoghi dove gli uomini sono morti combattendo, si riesce a rendere omaggio fino in fondo al loro sacrificio.
Appena fuori dal centro, lungo la ferrovia, rimangono ancora alcuni vagoni del famoso treno blindato, inviato come rinforzo dall’Avana, con 400 uomini e un carico di armi. Per impedire loro di schierarsi sulla collina di Capiro e ricongiungersi con le guarnigioni cittadine, Guevara inviò i suoi arditi, ossia il Pelotón Suicida, capeggiato dal giovane Roberto Rodríguez Fernández, detto El Vaquerito, per i suoi stivali da cowboy (vaquero), tuttora conservati nel Museo cittadino. Dopo aver arrestato il treno con un fitto lancio di bombe a mano, i ribelli si servirono poi dei trattori della scuola di agronomia per divellere i binari, facendo deragliare i vagoni.
Circondati, i soldati perlopiù si arresero, mentre le molotov ebbero ragione degli ultimi nuclei di resistenza. I loro armamenti andarono a rifornire il magro arsenale delle forze rivoluzionarie. Proprio in una pausa della battaglia, subito dopo la presa del treno, Guevara, appassionato di fotografia, aveva chiesto ad Aleyda March, sua compagna d’armi e futura sposa, di posare nello stesso luogo, spiegandole: «Vieni, Aleyda, t’immortalo davanti alla Storia».
Il giorno dopo, 30 dicembre, i combattimenti continuarono in tutta la città, dove l’altra colonna, capeggiata da Rolando Cubela, del Direttorio Rivoluzionario, aveva già impegnato le forze. Uno dopo l’altro, caddero i vari fortilizi improvvisati: la Caserma 31, il carcere, il tribunale, il palazzo del governo provinciale, la stazione di polizia. Nella conquista di quest’ultima, cadde anche El Vaquerito, facendo sì che il Che commentasse sconsolato: “Me han matado cien hombres!”.
Anche l’albergo dove ho alloggiato – l’unico nel centro cittadino – era stato uno dei punti salienti della battaglia. Il Santa Clara Hilton (ora Santa Clara Libre), situato proprio nel centralissimo Parque Vidal, domina tutta la città dall’alto dei suoi dodici piani, dipinti color menta. Abbiamo costatato con i nostri occhi come, dalla terrazza, punto d’osservazione privilegiato delle forze governative, la vista spaziasse su tutto il centro urbano. Pochi tiratori appostati quassù potevano colpire d’infilata le principali vie cittadine, che conducevano alla piazza sottostante. E abbiamo ripercorso con le nostre gambe, complice l’ascensore malfunzionante, quelle stesse scale interne che il Che e i suoi uomini salirono di corsa, per cogliere il nemico alle spalle, il 31 dicembre.
Dopo la conquista di questa posizione, le forze governative finalmente si arresero, alle 12 del 1 gennaio, lasciando libera la strada dell’Avana, ma la vera Rivoluzione era appena iniziata.