Un tempo erano le Torri Gemelle. Oggi, 12 anni dopo, nel mirino del terrorismo islamico ci sono il Cremlino e gli impianti olimpici di Sochi.
Anche perché, a ben guardare, l’ultimo vero nemico del terrore «alqaidista», l’unico in grado di continuare quella guerra iniziata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre è oggi Vladimir Putin. Non a caso il terrorismo di matrice jihadista colpisce in queste ore Volgograd, la ex Stalingrado, città simbolo della strenua capacità russa di resistere agli assalti nemici. Il secondo attentato dopo la strage alla stazione di Volgograd di domenica è arrivato ieri mattina quando un kamikaze s’è fatto esplodere a bordo di un autobus uccidendo 14 persone e ferendone gravemente qualche dozzina. Dunque 30 morti in soli due giorni. Due attenti terroristici di una simile gravità messi a segno in una città americana od europea a poche settimane da una competizione olimpica solleverebbero lo sdegno e l’indignazione di tutto l’Occidente. In questo caso i leader e i commentatori nostrani appaiono, invece, assai avari di solidarietà nei confronti della Russia e del suo presidente. A prevalere, in queste ore, non è la solidarietà per una Russia insanguinata dagli attentati, ma la logica, un po’ cinica, di chi tende ad attribuire a Putin, «cattivo» per antonomasia, la colpa dei propri mali. Prevale, insomma, la logica di chi pensa che il presidente russo un po’ se lo merita in quanto «colpevole» di aver organizzato i Giochi Invernali tra le montagne di un Caucaso dove soldati e servizi segreti russi hanno condotto una spietata guerra al secessionismo ceceno e al terrore islamista. La logica dello sbadato Occidente finisce, così, con il sovrapporsi con quella del terrorista Dogu Umarov, il leader del cosiddetto Emirato del Caucaso che invita, nei suoi proclami, a colpire con ogni mezzo i giochi di Sochi definendoli una «danza satanica sulle ossa dei nostri antenati». Nell’ambito del pensiero dominante in Europa e Stati Uniti la colpa più grave del presidente russo resta però quella di aver fermato l’intervento in Siria. Con quella mossa il presidente Putin non ha soltanto mandato all’aria i piani di Washington, Londra e Parigi, ma ha anche bloccato sul nascere un’incestuosa alleanza con lo jihadismo integralista del fronte anti Assad. Con quella mossa Putin ha anche scippato definitivamente a Barak Obama il ruolo di leader della lotta al terrorismo. Del resto quel ruolo difficilmente può restare appannaggio di un presidente che, non pago d’aver cercato d’armare i militanti siriani legati al fanatismo islamista, non si fa scrupoli a raccontare al New York Times, di passare ore accoccolato in poltrona per seguire le serie tv. Mentre Obama flirta con il nemico e ozia nei salotti della Casa Bianca l’unico a restare in trincea è, insomma, Vladimir Putin. Per questo le Olimpiadi di Sochi rischiano di diventare l’obbiettivo e il bersaglio preferito non solo di Doku Umarov e degli ultimi fanatici del terrorismo ceceno, ma di tutto lo schieramento jihadista. La differenza ideologica tra chi è pronto ad immolarsi per bloccare i giochi di Sochi e chi in Siria sostiene di combattere per la libertà, ma rapisce e uccide nel nome di Allah è, del resto, assai labile. In Siria i miliziani ceceni nemici di Putin erano in prima fila sul fronte di Maaloula, l’antica cittadella cristiana dove l’alleanza anti Assad non ha esitato a dar alle fiamme le case con la croce e a sequestrare dodici suore. Ora la stessa alleanza jihadista coalizzatasi per combattere il «nemico» Assad potrebbe metter a disposizione i propri veterani e i propri attentatori suicidi per colpire i Giochi Invernali. Anche perché quei giochi rischiano di diventare, altrimenti, il monumento alla determinazione di un Vladimir Putin rivelatosi il più agguerrito e temuto nemico del terrore islamista.
* da Il Giornale