Agli inizi del 900, nell’Italia post-unitaria, nella Sicilia neo annessa, caruso non era solo cifra anagrafica. Era cifra sociale e economica. I carusi erano un anello della catena produttiva. In Sicilia, allora, c’erano le materie prime. C’era lo Zolfo. E i carusi lo andavano a prendere.
Fecero tanti di quei buchi nella Val di Mazara a farla groviera. Ma, a trivellare il cuore di Trinacria non furono i proprietari, furono i concessionari. Già, perché i Gattopardi non si sporcarono le mani. Se non per firmare, con l’inchiostro, sangue dell’isola, concessioni su concessioni per l’estrazione dal sottosuolo. Che era privatizzato. Nella storia, che è capovolta, nella storia di un paese, l’Italia, che era ed è pura geografia, dove di liberale e privatizzato non c’era e non c’è nulla, il sottosuolo della terra del sud fu la prima cosa a essere privatizzata.
Lo stesso latifondista poteva sottoscrivere, rimanendo proprietario del suolo, più accordi per più concessioni per scavare il suo sottosuolo. La contropartita erano gabelle che facevano il ricco ancora più ricco. In anticipo.
La Sicilia è così piena, nelle viscere, di cunicoli sotterranei che si fa prima ad andare da Messina a Mazara sottoterra che percorrendo le strade. D’altronde, i trasporti guai, quelli non sono e non saranno mai privatizzati.
Si bucava la terra, e si lavorava nelle “coltivazioni”. I picconieri che uscivano bianchi e spiritati dalle zolfatare, morti in vita, erano merce preziosa. Erano l’élite operaia. Erano gli addetti all’escavazione del materiale. Erano pagati a cottimo e dovevano portarsi su, in superficie, le casse di materia grezza raccolta. Tra i gabelloti e i picconieri sussisteva un contratto di cottimo. Un tot. per cassa. Più casse, più denaro. Erano quindi i picconieri ad assumere i carusi per aiutarli nel trasportare le casse in superficie. I viaggi su e giù per la miniera era, dunque, il compito dei carusi. Affittanza umana.
I picconieri, che avevano in media dai due ai sei carusi, nel tempo misero in pratica la formula del “soccorso morto”. Pagavano in anticipo i carusi che finivano col diventare dei loro schiavi che potevano affrancarsi solo quando avevano onorato il contratto.
Le famiglie di questi carusi, strette dalla fame, poco facevano per tutelare la propria prole. Nelle zolfare lavoravano circa quindicimila operai. L’ottanta percento erano carusi!
Il mondo delle zolfare fu un mondo senza regole, senza un bilanciamento nei rapporti tra chi deteneva la proprietà, i gabelloti, i picconieri e i carusi. E di questo pessimo rapporto dettato da un mercato regolato da prezzi che risentivano degli alti e bassi sui listini internazionali, in Sicilia, in particolare nell’agrigentino, dove c’era una maggiore concentrazione di zolfare e quindi di lavoro, il quoziente fu un’antropologia malata e violenta.
L’assenza di diritti induceva l’uomo a rapportarsi verso gli altri uomini in virtù delle leggi della forza, della sopraffazione. Del sopruso.
I carusi, con 80 kg sulla schiena ad ogni risalita, con i piedi che affondavano nella mota, arrivavano in superficie digrignando i denti mentre il sudore si mescolava alle lacrime che scendevano dagli occhi che a stento vedevano la luce lì, fuori da quel budello caldissimo. E così si ammalavano presto. Di anchilostomiasi: l’anemia delle zolfare.
Oggi, vorremmo dire che i carusi stanno meglio. E invece no. La anchilostomiasi ha lasciato il posto a tumori e leucemie. La Sicilia come la Campania del Casertano, la terra dei Fuochi, in particolare la Val di Mazara, è vittima degli stessi problemi. Quei cunicoli, dalla dismissione delle miniere in poi, hanno rappresentato per la malavita, per le ecomafie, un luogo bello e pronto per stoccare rifiuti di ogni genere. Il tappetto sotto cui mettere la polvere. E quindi asbesto e rifiuti di ogni genere dappertutto. E ancora Cesio 137 nel lago di Soprano a due passi dall’omonima miniera. Presunti rifiuti tossici a Ciavolotta e Cesio anche a Pasquasia. Un sottosuolo che contiene, al posto delle materie prime, rifiuti che rilasciano nel tempo la loro carica inquinante che ammorba acque e terreni.
Malgrado la denuncia di associazioni (associazione Pio La Torre) e di pezzi dell’opinione pubblica che, periodicamente, tentano di riportare alla ribalta dei media e dell’opinione pubblica il grave problema, nulla si è fatto. La Regione Siciliana, anzi, ha tagliato i fondi all’Arpa che sarebbe l’ente deputato all’esecuzione dei controlli.
Manca una presa di posizione delle popolazioni, incapaci di associarsi e farsi collettivo. Pigramente rassegnate al “sistema”: quello delle clientele, dei favori. Non si crea e non si cementa una coscienza condivisa e una rappresentanza politica corrispondente. In Sicilia ci sono 38 presidi Slow Food, quelli sì, ma un attivista tipo NO Tav non si trova neanche con il lanternino.
Il risultato è la lenta e inesorabile autodistruzione che si abbatte, come nella più classica delle tragedie, sul futuro. Ancora una volta sui carusi. Vittime di ieri e di oggi.