Andrea Brambilla, alias Zuzzurro, aveva esordito con un piccolo ruolo in un film di Marino Girolami (La liceale al mare con l’amica di papà, 1980). Ma il suo destino era in teatro e in tv, in coppia col cognato Nino Formicola, alias Gaspare. Pochi anni dopo, Drive In, programma di cabaret di Italia1, imponeva il personaggio del commissario Zuzzurro, ovvero di Brambilla dialogante sul filo del surreale con Gaspare.
Le inchieste del commissario erano episodi di realtà italiana, dove i commissari non gettavano più – come molta stampa riteneva ancora – anarchici dalla finestra. Cominciava il riflusso, che ammetteva anche commissari come Zuzzurro, versione nostrana dell’ispettore Clouseau di Peter Sellers: non a caso aveva come abito di scena un impermeabile Burberry chiaro, tirato in vita dalla cintura. In gioventù Brambilla l’aveva comprato e ora quel capo lo rimborsava ampiamente della spesa proprio perché ormai gli era diventato stretto.
Satira sociale, non politica, quella di Zuzzurro e Gaspare, un preludio di anti-politica e ciò non solo perché una grossa emittente commerciale deve piacere a tutti. Anche i cognati associati erano impolitici per natura. Secondo i riflessi condizionati di allora, tra intellettuali e giornalisti, chi non era di sinistra, era di destra. In effetti Zuzzurro di sinistra non era. Meno ancora Gaspare. Si può dedurne che ciò accadesse per influsso di Brambilla & Formicola.
All’epoca, il termine cabaret a Roma significava Bagaglino e Giardino dei supplizi, che satireggiavano a destra; a Milano, Derby e Ciak satireggiavano invece a sinistra. Il programma di Italia1 offrì una tribuna essenzialmente all’area milanese (quelli dell’area romana, come Pino Caruso e Oreste Lionello, si erano già piazzati alla Rai-Tv). Fu un successo inatteso e incompreso, almeno inizialmente, dai quotidiani. Quello dove lavoravo da poco mi affidò il cabaret e il jazz, infatti nessuno dei redattori storici credeva nell’uno e capiva dell’altro: seguivano teatro, opera, musica classica, cinema tutt’al più… Ma gli spettatori di Drive In erano più di quelli che vedevano commedie, opere, concerti, film. Morale: dai titoli di due colonne in basso, passai a quelli da cinque in apertura di pagina. L’affetto per i cabarettisti crebbe in proporzione.
Quelli di Drive In – soprattutto Ezio Greggio, Enrico Beruschi, oltre a Zuzzurro & Gaspare – venivano spesso a esibirsi Genova per via dell’impresario Pierluigi Delucchi all’Instabile, locale che nel nome satireggiava la prosopopea del teatro Stabile di Genova, epoca Chiesa & Squarzina. Gli articoli sui cabarettisti si succedevano, rischiando di somigliarsi quanto si somigliavano i loro spettacoli. Così chiedevo a ognuno di loro dirmi di dirmi qualcosa di nuovo. Tempo perso. Si noti che per “nuovo” s’intendeva un nuovo spettacolo, non un nuovo amorazzo. Per non riscrivere il già scritto, c’era solo da stare insieme a loro e carpirne le confidenze. Di solito chi sa intrattenere il pubblico, sa intrattenere anche colleghi e conoscenti con storielle di vita vissuta. Insomma, dormendo poco – difficile rientrare prima delle 4 del mattino – tra uno scherzo e l’altro raccoglievo aneddoti che raramente si potevano scrivere tali e quali il pomeriggio seguente, ma che erano determinanti perché un redattore, raccontandoli ai fattorini del giornale, alzasse il proprio indice di gradimento.
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In quel periodo, da Genova, una “Miss qualcosa” era stata mandata al primo impresario d’Italia, uno di cui non si è più smesso di parlare. Gli ambienti televisivi milanesi non erano dei più discreti. Si può dire che vigesse una briosa ferocia. Così uno dei cabarettisti di Drive In, chimicamente sovreccitato, apostrofò l’adolescente in questione, appena delibata dal padrone (e messa subito in onda in “prima serata”). Aveva lo stesso tatto che lo avrebbe distinto nei film (di gran successo, ma solo qualche anno dopo): Il quesito merita di essere ricordato: “Dove vai, bel trujun?”. Erano i primi segni del leghismo montante…
Un altro cabarettista, più bravo, meno noto del suddetto, era proverbiale per essere placido. Smise di esserlo quando gli si fece inalare – chissà chi avrà avuto l’idea? – un’ampia dose di euforia, chimica anch’essa.
Ma non c’erano solo momenti belli – in stile Amici miei – per la bella brigata che si divideva tra Genova e Milano. C’erano anche quelli brutti. Di lì a poco Delucchi e Ernst Thole – figlio di Karel, grande disegnatore delle copertine dei romanzi di Urania – morirono di un male allora invincibile. In quel via via di risate e pianti, di donne incantevoli (Gabriella Golia, Giovanna Passaquindici…) e uomini che capaci di ridere, oltre che di far ridere, potevo credere di vivere, talora, come avevano fatto Gualtiero Jacopetti o Gigi Rizzi o Tomaso Staiti.
Per i giornalisti carrieristi dei maggiori quotidiani conta solo la redazione politica, dove mettersi nella scia del potente di turno per ascendere con lui. Non sanno quanto ci si avvicini non a mezzi-uomini, ma a semi-Dei e semi-Dee grazie ai compiti “minori” del servizio spettacoli. Non sanno, soprattutto, che cosa significhi condividere – con atleti e attori di successo – la beffarda constatazione: “E mi pagano anche…”.Ricordando in morte, avvenuta ieri, la grande vita di Andrea Brambilla, consola ricordarlo quando – sfilato l’impermeabile di Zuzzurro – usciva dal camerino, atteso da sconosciuti ansiosi di presentare – a lui e a Nino Formicola – mogli eccitate, senza che nessuno potesse dubitare quanto il dopo-teatro sarebbe stato piacevole. Per le mogli.