Fallimento (di un) tecnico. L’addio di Mario Monti alla sua stessa creatura – Scelta Civica – rappresenta l’implosione di una parabola che a dire il vero, politicamente parlando, non è mai iniziata. La scusa ufficiale è la decisione di undici senatori montiani di sostenere “senza se e senza ma” la legge di stabilità presentata da Enrico Letta: posizione ritenuta da Monti troppo “politica” per essere accettata da chi era stato nominato proprio per raddrizzare quello che viene considerato dalla trojka il legno storto dell’Italia, la politica appunto.
Si dirà: ma il professore – sconfitto alle urne con un risultato ben al di sotto delle aspettative – è stato sempre a disagio alla guida di una creatura nata per dover rappresentare la joint venture tra il ceto medio riflessivo liberale e la volontà dell’Europa e che in realtà si è dimostrata, ne più e né meno, un partito, per giunta nemmeno determinante per influenzare il governo di larghe intese. Partito, poi, formato da una classe dirigente rispetto alla quale Monti stesso non ha mai una nascosto una certa antipatia (ma chi ha fatto le liste?), se non un vero e proprio disprezzo come si è visto con la sua algida distanza dalle correnti (montezemoliani e neocentristi su tutti).
Da una parte, di certo, avrà contribuito l’abbraccio al governo dei suoi e la mancata esperienza a navigare nelle acque della politica da parte sua. Conoscendo però ormai una vanità iperbolica celata a fatica sotto la sobrietà del loden, non sarà sfuggita in questi mesi la crescente irritazione dell’ex premier per la novità: da febbraio non è più lui a dare, per l’Italia, le carte sul tavolo da gioco internazionale. Adesso c’è uno più giovane, più scaltro, e che “piace” all’Europa e a Obama stesso: si tratta di Enrico Letta. Certo, la decisione “annunciata” di Silvio Berlusconi di far aprire una crisi di governo aveva riaperto, per qualche giorno, la possibilità concreta di rientrare per il professore al centro della partita, magari intestandosi quel “centrodestra europeo, bla, bla, bla” così duro a manifestarsi in Italia secondo i desiderata del board del Partito popolare europeo. E invece, quell’altra “giovane” volpe di Angelino Alfano non solo ha convinto il Cavaliere a desistere ma ha ravviato quel percorso di riavvicinamento in direzione Ppe che ha motivato il ministro Mario Mauro e Pier Ferdinando Casini, quest’ultimo ritornato “Pierfurby”, a forzare la mano in direzione “Alfetta”. Davanti a tutto questo Monti ha detto “basta”.
A ben vedere, però, la parabola del professore è scemata ben prima di questa crisi tutta interna al terzismo mancato. Il tutto è finito già all’inizio si potrebbe dire: a partire, cioè, dall’esperienza non certo esaltante della sua “parentesi” tecnica. Il prodotto della “cura Monti”, infatti, è stato un Paese economicamente depresso, con un rischio di desertificazione industriale al Sud pauroso (vedesi dati Svimez di ieri), con una riforma delle pensioni che ha creato un pasticcio “tecnico” come quello degli esodati nonché una riforma del lavoro rispetto alla quale anche i giuslavoristi della domenica hanno vita facile nel definirla disastrosa. Le elezioni politiche, poi, sono state solo la conferma di un rapporto mai nato tra Mario Monti e il Paese.
Eppure sull’ex dirigente di Goldman Sachs era stato compiuto un investimento imponente. Non solo quello politico con la regia di Giorgio Napolitano: in pochi giorni il cittadino Monti è diventato senatore a vita e poi premier (e un giorno si studierà nei libri di diritto questa forzatura). Ma anche l’investimento mediatico. La stessa scelta di “umanizzare” il personaggio – dalle cronache stile nord-Corea dei primi giorni di governo («cammina a piedi», si è arrivato a leggere sui giornali) fino alla sceneggiata del cane “Empy” in diretta a Le invasione barbariche – dimostrava come ci fosse all’interno dei grandi gruppi editoriali la volontà di dare un’anima all’ex rettore della Bocconi. Uno sforzo corale che, evidentemente, non ha colpito se nelle urne il progetto di Monti si è rivelato per quello che è: un’opzione minoritaria e per nulla organica.
Non solo. Lo stesso Mario Monti è voluto rimanere quello che è: un tecnico, per giunta allergico alla dimensione dialettica propria della politica. Resta un unico mistero allora: come pensava il nostro di dare una dimensione politica a un programma voluto e scritto dall’estero? Lui che, così tanto allergico ai partiti, dopo averne creato a sua volta uno ha pensato l’unica cosa possibile: dimettersi, da se stesso?
@rapisardant