Quarantasei anni fa a La Higuera, un minuscolo villaggio sulle montagne boliviane, alcuni colpi d’arma da fuoco misero fine alla vita intensa, avventurosa, generosa e controversa di Ernesto “Che” Guevara. A sparargli, mentre era ferito e prigioniero, furono i soldati delle forze antiguerriglia boliviane, ma il colpo di grazia, pare, venne dato da Felix Rodriguez, un agente della Cia.
A quasi mezzo secolo di distanza è difficile scrivere senza retorica di un uomo che è diventato un’icona della seconda metà del XX secolo, e ancor oggi rappresenta un simbolo universale. E come tutti i simboli è stato sfruttato e distorto a destra e manca, per ragioni politiche, culturali e finanche commerciali. A cominciare dai suoi ex compagni di lotta, Fidel Castro e i dirigenti della rivoluzione cubana, che pur essendo entrati in contrasto con Guevara su molti punti, approfittarono della sua morte per trasformarlo in un “santo” laico, così come era già stato fatto con Camilo Cienfuegos.
Non è rimasto molto dei sogni e degli ideali che animarono la vita del “Che”: la rivoluzione cubana e il progetto, forse ingenuo, di dar vita a una sollevazione totale dell’America Latina contro lo scomodo vicino yanqui. Eppure la figura del ribelle argentino – perché questo era il giovane Ernesto, prima ancora che un guerrigliero rivoluzionario – continua ad affascinare le giovani generazioni.
Un fascino pre-politico, romantico e universale. Perché Ernesto Guevara, al di là di ogni considerazione storica, politica e ideologica, rappresenta a suo modo l’archetipo dell’eroe. Dell’uomo che assume su di sé un compito, un’impresa collettiva, e cerca in modo disinteressato di portarla a termine, costi quel che costi. Nel caso, pagando anche con la propria vita.
«Beato il popolo che non ha bisogno di eroi», scriveva Bertolt Brecht. E si sbagliava. Perché da che mondo è mondo tutti i popoli hanno avuto bisogno di eroi. E quando vengono meno questi ultimi, è segno che il popolo stesso si sta disgregando, sta marcendo o è già mezzo putrefatto. Pronto per finire nel dimenticatoio della storia ed esser sostituito da altri popoli.
È per questo motivo che la figura simbolica di Ernesto Guevara è sopravvissuta alla sua morte, alla fine del comunismo, al lento disfacimento della rivoluzione cubana e al crollo delle ideologie. Ed è per lo stesso motivo che il guerrillero heroìco viene ricordato persino da chi, apparentemente, si trova agli antipodi della sua parabola politica. Come ha sottolineato anni fa Mario La Ferla nel volume “L’altro Che” (Stampa Alternativa), già da molti anni gruppi culturali e formazioni politiche di destra hanno rivalutato la figura del guerrigliero argentino.
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E non è un caso che già nel 1968, a pochi mesi dalla sua morte, il primo omaggio italiano a Guevara provenne dalla compagnia teatrale del Bagaglino, notoriamente schierata a destra. Fu Gabriella Ferri a interpretare la canzone “Addio Che”, con testo di Pier Francesco Pingitore e musica di Dimitri Gribanovski. Le parole dicevano: «Addio Che, la gente come te non muore nel suo letto, non crepa di vecchiaia. Addio Che, sei morto nella valle e non vedrai morire la tua rivoluzione. (…) Addio Che, come volevi tu, sei morto un giorno solo e non poco per volta. Addio Che, a piangere per te verremo di nascosto le notti senza luna. Addio Che». Era il “lato B” del singolo “Il mercenario di Lucera”, interpretato da Pino Caruso.