La bandiera a stelle e strisce garrisce al vento autunnale. Gli U.S.A. non cessano di rivendicare un ruolo geopolitico dominante, in un’ottica unipolare derivante da una radicata consapevolezza storica e da un afflato progettuale dai connotati messianici. Vale dunque la pena approfondire le fondamenta storico-politiche, culturali, ma soprattutto spirituali su cui si erge il modello statunitense, contraddittorio e dinamico coacervo di istanze che edificano più che un apparato statale, una vera e propria Weltanschauung.
Ad aiutare l’analista o il semplice lettore interessato interviene un acuto saggio dello storico Giorgio Galli, il cui stesso titolo problematico induce a una riflessione preliminare. L’impero antimoderno intende infatti ribaltare numerosi luoghi comuni relativi al Nord America, smascherando le ingenuità – o le malizie – del politicamente corretto e rivelando una dimensione “altra” degli USA. L’immagine rassicurante propinata dai mass media, solitamente zelanti nel proporre una visione esclusivamente democratica, moderna e progressista del Paese simbolicamente incarnato da Barack Obama, viene posta da Galli in rapporto dialettico con un’autocoscienza nordamericana ben differente. Lo scrittore rileva infatti come negli Stati Uniti si dipani, attraverso processi sottesi e fluttuanti, spesso riemergenti in modo carsico, una consapevolezza identitaria legata ai concetti di “impero” e “antimodenità” che costituiscono una ben precisa modalità di approccio alla politica, alla società ed alla religione.
Le riflessioni di Galli si sviluppano in modo non organico né sistematico, con la finalità di proporre suggestioni da approfondire ulteriormente, a che il lettore ragioni e metta in discussione i propri inevitabili pregiudizi. Tali considerazioni vengono elaborate in una prospettiva storico-genealogica, che prende le mosse dal governo di Clinton per giungere sino all’attuale amministrazione statunitense. Da “illuminista aggiornato” quale si definisce, Galli impiega con scientificità e razionalità la materia del proprio studio, senza scadere negli opposti e paralleli rischi del complottismo irrazionalista e del positivismo riduzionista.
La prospettiva ermeneutica che anima il presente lavoro è così sintetizzabile: la modernità, originata dall’invenzione della democrazia rappresentativa, è da alcuni decenni entrata in una crisi radicale determinata, o testimoniata, proprio dalla degenerazione del suo modello politico fondante; gli U.S.A., patria storica della modernità, sono anche il luogo di elezione per constatarne la crisi, le cui manifestazioni possono essere ravvisate in ambiti differenti ma correlati: l’escalation di disordine connesso al terrorismo interno ed esterno, il rafforzamento di movimenti estremisti di una destra cristiano-evangelica, suprematista, settaria e razzista, ben emblematizzata nei Diari di Turner e legata a frange del partito repubblicano e del Tea Party, la crisi di legittimità delle istituzioni e l’antipolitica diffusa, infine, il problema immigratorio, soprattutto legato ai cosiddetti “latinos”.
Tali fenomeni non vengono considerati come semplici patologie del sistema, bensì come indici dell’emersione di una visione del mondo eterogenea rispetto a quella democratica, laica e progressista, meritevole di attenzione. L’antimodernismo americano non sarebbe cioè una semplice reazione frustrata e populista a una fase di difficoltà economica e sociale, bensì la rivendicazione da parte di una fetta consistente della popolazione di “un’altra modernità”, una diversa tipologia di organizzazione politica e religiosa in nome di valori forti connessi a una Weltanschauung che Zeev Sternhell, citato da Galli, indica come “modernità comunitaria, storicista, nazionalista, per la quale l’individuo è determinato e limitato dalle origine etniche, dalla storia, dalla lingua e dalla cultura”. Questo sbilanciamento verso la cultura e la comunità, antitetico al privilegio accordato alla politica e all’individuo da parte della classe dirigente, crea dissidi e tensioni all’interno dell’impero statunitense, la cui natura e distinzione rispetto all’imperium tradizionale viene indagata mediante gli studi – contestualizzati in modo critico – di Negri, Boron, Zolo, Zizek, de Benoist e Viansino.
Queste notazioni si concludono con una proposta indirizzata a riformare – o meglio rivoluzionare, considerando gli interessi mono o oligopolistici in gioco – il modello vigente, per adattarlo alle nuove sfide della contemporaneità: l’estensione dell’ambito del diritto di voto dalla sfera politica a quella economica, secondo un ampliamento democratico da collegarsi non all’automatismo anagrafico ma ad una scelta consapevole, realizzando un superamento del fittizio egualitarismo moderno secondo un modello di “ampliamento dei diritti condizionato da una vocazione alla scelta”.
Scriveva Vilfredo Pareto: “La «democrazia» degli Stati Uniti d’America ha per principio l’eguaglianza degli uomini; ed è perciò che in quel paese civile si linciano negri ed italiani, si vieta l’immigrazione cinese, e si muoverebbe guerra alla Cina, se a loro americani fosse vietato di andarci”. Riflettere sulla profondità di queste parole e dedurne una via interpretativa, o anche pragmatica, è compito di noi abitanti, volenti o meno, di questa modernità.
*L’impero antimoderno. La crisi della modernità statunitense da Clinton a Obama, di Giorgio Galli, Edizioni Bietti, Milano 2013, pp. 109, € 14,00.
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