Al tempo della politica liquida si sopperisce alla mancanza di fondamenta culturali un po’ con il citazionismo strampalato, un po’ con l’uso delle icone di autori presi dall’immaginario pop e trasformati in figurine adesive che possano surrogare un Pantheon con una minima dignità. A sinistra il conflitto in atto nell’agone delle primarie si gioca tutto sulla narrazione di superficie: non c’è un confronto tra visioni alternative, ma un duello da “Sarabanda”, tra una citazione che richiama i Righeira e una di Caparezza.
Per il filosofo Zygmunt Bauman «viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto». Nel mezzo c’è una politica che utilizza i filoni culturali come trasferelli, adesivi temporanei dietro cui nascondere le proprie lacune strutturali, senza appesantire il proprio tatticismo con paletti che non consentirebbero poi di compiere spericolate giravolte al primo avviso di un cambio della direzione del vento. Tutto risale alla scelta dei partiti di pensionare frettolosamente il prospetto ideologico, senza sostituirlo con programmi che avessero un chiaro profilo di concretezza/realismo. Lo storico Luciano Canfora sostiene che la mollezza della “sinistra indigena” sia il risultato di un disarmo ideale che ha portato una intera classe dirigente ad affrontare le attuali sfide politiche senza alcuna bussola che non fosse una coperta di Linus caricaturale, “l’Europa”, declinata visivamente dal volto pacioso di Romano Prodi e quotidianamente dall’adozione di una moneta come l’euro, vera icona della recessione italiana.
Sommare il rivoluzionario terzomondista Che Guevara al presidente americano John Fiztgerald Kennedy ha consentito di nascondere dietro epiche storie tutte novecentesche i nodi irrisolti di una identità politica della sinistra, in perenne impasse tra giustizialismo e garantismo, turbocapitalismo e decrescita, pacifismo e bombardamenti democratici in nome del mantra dei diritti umani. Su Guevara e sulla lettura banalizzante di una certa sinistra intellettuale, illuminante è la posizione del filosofo francese, Alain de Benoist: «La cultura occidentale, imbevuta di razionalità cinica, esperta di ormai standardizzate strategie di comunicazione e nemica di un’effettiva pluralità di pensiero, ci ha insegnato che il primo strumento per combattere il nemico anche più pericoloso è quello di renderlo muto, di non fargli esprimere il proprio messaggio, tanto più se si tratta di un messaggio che potrebbe avere serie conseguenze sulla solidità dello status quo… (…) Si tratta di purgare i messaggi sgraditi dei loro contenuti più pregnanti, allentarne il significato, metterli in sordina, ridurli a vaghe risonanze, fittizie ed eteree, prive di sbocco nella realtà, annegate in una immagine utopica». E su questo tema, ancora più pungente, è la riflessione dello scrittore transalpino Jean Cau, che distingueva tra l’eroismo disinteressato dell’avventuriero argentino e il cinismo dei leader della sinistra del suo tempo: «La rivoluzione? O Dio? (…) Stalin, Fidel, o quel grasso cinese di Mao son rimasti in questa deplorevole confusione. Hanno vissuto la fede, poi le hanno saldato il conto in un ordine. Hanno costruito una chiesa, se ne sono in seguito proclamati papi, e in un tabernacolo, hanno rinchiuso l’idolo che sapevano ormai fuori uso. Non sono andati a morire in fondo a una foresta, questi furbacchioni». Ma le furbizie restano sempre tali, anche se ammantate di nuovismo e di rinnovamento generazionale.
E allora, tornando alle analisi di Bauman, l’adesione a un partito genericamente democratico, progressista o di sinistra (ma l’obiezione può valere anche per le aggregazioni di segno opposto) – da scelta coerente con una visione del mondo – diventa come il “mi piace” cliccato su un gruppo Facebook: «Le aggregazioni dei social-network – spiega il sociologo polacco – sono come quelle dei proprietari dei cappotti appesi nel guardaroba durante una rappresentazione teatrale. È un gruppo che sta insieme per il tempo dello spettacolo. L’appartenenza non comporta legame duraturo né responsabilità comune gli uni per le scelte degli altri né conoscenza reciproca. E’ tutto effimero senza obbligo di solidarietà».
* dal Secolo d’Italia del 30 settembre 2012