Alcune considerazioni in margine al pezzo di Marcello Veneziani apparso sul Giornale del 23/09/2013 dal titolo “Dall’austerità alla decrescita. Ecco i miti tristi della sinistra”. Il titolo – che certamente è prerogativa della redazione – mi ha colpito, perché mi è sembrato piuttosto riduttivo e fuorviante.
Non è infatti vero che austerità e decrescita appartengano alla sinistra. Appartengono innanzitutto al buon senso che sa bene che la Terra non può più reggere il sistema economico fondato sulla crescita (delle merci, dei consumi, dei rifiuti). Il 20 agosto di quest’anno abbiamo raggiunto il cosiddetto overshoot day, vale dire il giorno di sovraccarico ecologico in cui il Pianeta non è più in grado di rigenerare risorse ed assorbire sostanze nocive. Come dichiara Massimo De Maio, presidente nazionale di Fare Verde, “in soli 7 mesi e 20 giorni abbiamo consumato una quantità di risorse naturali equivalente a tutto ciò che il pianeta poteva generare per il 2013. Praticamente stiamo consumando un pianeta e mezzo, pur avendone solo uno a disposizione”. Basti pensare che nel 1986 questo giorno critico coincideva col 31 dicembre e da allora tende a portarsi sempre più indietro nell’anno!
E poi perché miti? L’austerità è una virtù virile predicata da Seneca e da Evola, per citare due autori cari a Veneziani e al sottoscritto. Evola, in particolare, stigmatizzava l’economia dell’uomo moderno che ha portato “l’inquietudine, l’insoddisfazione, il risentimento, l’incapacità a possedersi in uno stile di semplicità, di indipendenza e di misura… ha fatto nascere in lui il bisogno di un numero sempre maggiore di cose, lo ha dunque reso sempre più insufficiente e impotente” (da “Rivolta contro il mondo moderno”).
Quanto alla decrescita felice, essa non è affatto sinonimo di tramonto, di miseria, di regressione. Qui l’aggettivo è importante quanto il nome, perché la distingue da quella decrescita indiscriminata e quantitativa (che riduce indifferentemente beni e merci e servizi essenziali) e in economia si chiama recessione. La decrescita è felice, per l’appunto, perché è una selezione qualitativa delle merci, non ci priva del nostro tenore di vita, ma lo realizza con intelligenza e sobrietà, è una strada che ha come meta “un sistema economico in cui non si producono merci che non sono beni… senza utilizzare sostanze nocive, senza alterare i cicli biochimici, senza produrre rifiuti e consumando la quantità minima di risorse e di energia per unità di prodotto” (Maurizio Pallante, Meno e meglio. Decrescere per progredire, ed. Bruno Mondadori 2011).
Storicamente, poi, fu realizzata nel regime fascista sotto il nome di autarchia e significava ridurre sprechi, cose superflue e puntare su tecnologie innovative ed efficienti (un esempio fra tanti, le centrali idroelettriche costruite in Sila). Considerare poi il nucleare una fonte alternativa al petrolio e piangere sul fatto che Chernobyl (ma anche Fukushima) ha dato “l’estrema unzione al piano energetico del nostro Paese” vuol dire attardarsi su tecnologie obsolete, che non servono all’Italia e sono solo funzionali al sistema economico fondato sulla crescita, senza vedere l’immenso giacimento che l’Italia ha la fortuna di possedere, che è il sole. “Chist’è ‘o paese d’ ‘o sole”, rammenta la vecchia canzone napoletana. C’è in definitiva un pensiero all’altezza della crisi che viviamo, come a ragione si domanda Veneziani nel suo eccellente saggio Dio,Patria e famiglia? Ebbene, a mio sommesso avviso, c’è e si riassume nella decrescita felice, che è insieme scelta esistenziale, ideale politico e necessità economica ed ecologica.
@barbadilloit