Giovanni Gentile ha fornito, sotto il profilo teoretico, un contributo imprescindibile alla filosofia italiana ed europea del Novecento. Nonostante i giudizi preconcetti, motivati da ragioni squisitamente politiche e dettati dalle linee guida dell’“intellettualmente corretto”, molti critici, liberi da tali condizionamenti, riconoscono oggi la grandezza del pensatore di Castelvetrano. Gentile fu, non solo insigne filosofo, ma uomo dotato di una non comune nobiltà di spirito e di coraggio intellettuale. E’ tornata da poco nelle librerie per i tipi di OAKS editrice, l’opera che può essere considerata il suo lascito spirituale, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, preceduta da un saggio introduttivo che contestualizza la figura e l’azione culturale messa in atto dal filosofo, a firma del curatore, Gennaro Sangiuliano (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 194, euro 20,00).
L’opera, che Ugo Spirito definì la più importante tra quelle dell’attualista, pubblicata postuma nel 1946, fu scritta in un momento drammatico della storia d’Italia, tra il settembre e l’agosto del 1943, quando tutto, per il regime fascista, era ormai perduto: «a sollievo dell’anima in giorni angosciosi» e per: «adempiere un dovere civile» (p. 5), in vista dell’Italia futura. Si può, pertanto, parlare di Genesi, quale testimonianza, pensata al cospetto della morte ormai prossima, del mostrarsi, tanto nel Gentile uomo che nel filosofo, della riforma morale e civile, che egli aveva teorizzato per tutta la vita. Il libro, nato da un corso universitario, mostra una ripresa di temi che Gentile aveva già affrontato nel 1899 ne La filosofia di Marx, autore nel quale aveva ravvisato evidenti criticità, ma anche la positiva risoluzione del pensiero nella prassi. L’attualista prende le mosse, in queste pagine, dal concetto di Disciplina, inteso quale capacità di governare il costume che, nel suo ripetersi, si trasforma in ciò che i Romani chiamavamo mores: «elementi dell’unicità dello spirito» (p. XXIX).
In particolare, il filosofo si sofferma ad analizzare la relazione individuo-società, facendo propria la definizione aristotelica dell’uomo quale “animale politico”, la cui vita “per eccellenza” si dà nella “società trascendentale” o “comunità”. Solo in essa: «si esalta l’immanente alterità dell’Io» (p. XXX). In ogni caso lo Stato, la dimensione politica, vivono in interiore homine, non nascono da un contratto sociale, stipulato al fine di lasciarsi alle spalle lo stato di natura, lo stato ferino. Vi è, dunque: «una vox populi che è ratio cognoscendi della verità […] ed è il ciceroniano consensus gentium» (p. XXX). Tale voce, senza essere richiesta, parla, sua sponte, in ogni individuo, in quanto figlio di una storia e appartenente, con i suoi simili, ad un comune destino. Da ciò sorge la nozione gentiliana di Stato etico, latore, come ben sapeva Campanella, di un “valore assoluto”, in quanto in esso è presente un: «un volere “comune e universale” del soggetto» (p. XXXI). Lo Stato autentico sorge dalla mozione di una comunità, non si limita, come vorrebbero i teorici del post-moderno, ad essere organizzazione funzionale e amministrativa. Esso è espressione di un popolo, radicato in un paesaggio, risultato della sua azione nello spazio.
Se esiste un umanesimo della cultura, altrettanta rilevanza assume per Gentile l’umanesimo del lavoro. Il lavoro, infatti: «non è solo un fatto salariale ma è una delle più alte espressioni dello spirito umano» (p. XXXII). Nell’attività lavorativa, l’uomo dispiega la stessa capacità di pensiero, che si esplica nella creatività intellettuale. Per questo il lavoro va tutelato, in termini corporativi, dall’azione atomistica che potenzialmente può essere messa in atto, a seconda delle diverse contingenze, da imprenditori o salariati. Difendere la dignità del lavoro implica la difesa del bene della comunità. Gentile, muovendo da Marx, postula l’assoluta identità di teoria e prassi e giunge, platonicamente, ad identificare la funzione del filosofo a quella del politico. I politici-filosofi sono, avrebbe rilevato Eric Voegelin anni dopo, uomini dall’animo “ordinato” e, quindi, uomini che sanno e agiscono virtuosamente. E’ facile comprendere, come, stante lo stato attuale delle cose, caratterizzato da disordine esistenziale e politico, tali tesi gentiliane siano di stringente attualità.
Come giunse a maturare tali posizioni il pensatore attualista? Il saggio introduttivo di Gennaro Sangiuliano, risponde pienamente a tale quesito, ricostruendo l’intero iter biografico, politico e speculativo di Gentile. La ricostruzione biografica smentisce quanto sostenuto, tra gli ultimi, da Mimmo Franzinelli (Il filosofo in camicia nera. G. Gentile e gli intellettuali di Mussolini, 2021), nelle cui analisi si palesa la figura di un pensatore legato al potere, alla sua gestione, dispensatore di favori “politici”. In realtà, il percorso del filosofo attualista è caratterizzato da coerenza estrema fin dagli esordi. Laureatosi alla Normale, si propose sulla scena intellettuale nazionale quale pensatore atto a dare coerenza teorica alle “intuizioni” dell’avanguardia primo novecentesca. Durante il sodalizio con Croce fu artefice di una critica organica delle insufficienze dalla cultura positivista e del socialismo mentre, attraverso l’esegesi del Risorgimento, inteso quale Rivoluzione-Restaurazione, presentata nelle pagine del Rosmini e Gioberti, si fece latore di una radicale riforma morale e civile, da compiersi politicamente, della nazione italiana. Ciò implicava naturalmente una matanoia, un “cambio di cuore”, degli italiani, che il filosofo testimoniò concretamente.
Nell’interventismo, e poi nel fascismo, individuò la possibilità dell’inverarsi nel processo storico di tale auspicabile riforma. Un ruolo rilevante in essa avrebbe dovuto svolgere l’educazione: da ciò il suo impegno come pedagogista, Ministro e in qualità di Direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana. A seguito del Concordato, si allontanò dalle cariche pubbliche e, in qualche modo, dallo stesso regime. Tornò a far sentire alta la propria voce nel Discorso agli Italiani del 24 giugno del 1943. Questo il commento di Sergio Romano: «Aveva taciuto al momento della dichiarazione di guerra; non ritenne di tacere nel momento in cui le sorti della guerra volgevano al peggio» (p. XXIV). Alla faccia dell’uomo di potere. Tale scelta gli costò cara, la pagò con la vita. Fu assassinato il 15 aprile del 1944 da un commando gappista guidato da Bruno Fanciullacci. Nel 2004, Jader Jacobelli, in un articolo uscito sul Corriere della Sera, dichiarò apertamente che l’omicidio era stato compiuto con la connivenza del vertice del PCI.
La concordia sociale, la pacificazione nazionale, di cui il filosofo disse nel suo Discorso agli Italiani, sono ancor lungi da venire. Dobbiamo fare ancora i conti con Giovanni Gentile, è un’urgenza non rinviabile.