Con toni trionfalistici degni di migliori occasioni la stampa ha celebrato la notizia dell’abolizione della censura cinematografica e osannato il ministro Franceschini come un nuovo Lincoln, liberatore invece che degli schiavi d’America dei produttori, affrancati dalla schiavitù del controllo statale sulle opere dell’ingegno. È indubbio che la censura preventiva sulle pellicole costituisse ormai un fossile storico, o meglio ancora una di quelle buone cose di pessimo gusto cantate dai poeti crepuscolari. In un’epoca in cui con un semplice clic un dodicenne nativo digitale può documentarsi sulla più vasta gamma di perversioni sessuali (o parafilìe, come si dice oggi) e il concetto di comune senso del pudore è sempre più labile, censurare le pellicole pornografiche è pateticamente inutile, dunque dannoso. Vero è pure che in una nazione in cui niente si crea, nulla si distrugge, soprattutto quando ci sono da salvaguardare incarichi e prebende, la commissione che aveva il potere di impedire l’uscita di una pellicola è stata sostituita da un nuovo, pletorico, areòpago di quarantanove giuristi, sociologi, pedagogisti, massmediologi e persino ambientalisti, cui sarà demandato il compito di classificare le pellicole destinate ai cinema, quando questi (si spera presto) saranno riaperti.
A disturbare di più, in queste ditirambiche celebrazioni della rivincita del pan bagnato sulla zuppa, sono tuttavia due elementi. Il primo è che la presunta abolizione della censura è servita come ennesima occasione per esaltare quale una sorta di redivivo Giordano Bruno il regista di Ultimo tango a Parigi: una delle pellicole più noiose della storia della cinematografia, che deve la sua fortuna da un lato alla scena del “burro” – per altro semplicemente allusa, – dall’altro all’eccesso di zelo della magistratura, che sanzionò l’opera e il regista condannando la pellicola alla distruzione (il “rogo” di inquisitoriale memoria). Tutte le censure sono da condannare, ma è onesto precisare che, piuttosto che dalla scena in sé, i censori furono probabilmente preoccupati dal monologo contro la famiglia che Marlon Brando – Paul obbligava Maria Schneider – Jeanne a declamare mentre la sodomizzava: “Santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo”. Un bric-à-brac di livori post-sessantottardi che giustificarono lo sdegno del censore, se non le forbici, anzi il fiammifero, della censura.
Il tabù del “secondo canale”, è vero, afflisse a lungo i nostri censori: per esempio una canzone morale come poche altre quale Bella senz’anima di Cocciante fu esclusa dal tubo catodico per quel “e quando a letto lui ti chiederà di più” in cui i funzionari Rai scorsero un’allusione a quella che lo zio del protagonista in Amarcord avrebbe chiamato la concessione dell’intimità anale. Ma nel non capolavoro di Bertolucci c’era qualcosa di più, e decisamente di peggio.
È doloroso aggiungere, per altro, che sul set dell’Ultimo tango, a lungo considerato come un inno alla libertà sessuale, vennero rispettate ben poco la libertà e la personalità della protagonista, l’appena ventenne Maria Schneider, che uscì traumatizzata dall’esperienza e non perdonò al regista (e a Marlon Brando) l’improvvisazione casearia che fece la fortuna della pellicola. La povera Maria morì giovane, per i parametri odierni, dopo una vita tormentata da problemi psichici e dipendenza da stupefacenti, vittima di un atto di violenza morale se non fisica che la segnò a lungo, inducendola successivamente a rifiutare ruoli erotici, a costo di farsi cacciare dal set. Ma di questo nessuno parla, perché l’autore di Novecento era uno di quei mostri sacri di cui nessuno osa parlar male, così come lo era Marlon Brando prima che gli sfuggisse un’invettiva contro “i boss ebrei di Hollywood”.
C’è tuttavia un secondo motivo per cui gli elogi al ministro Franceschini appaiono fuori luogo. È il fatto che in realtà alla vecchia censura moralistica e sessuofobica, che censurava le tette al vento (ma di donne bianche: i documentari etnografici erano risparmiati) o l’ingenua satira nei confronti della Pubblica Sicurezza di Totò e Carolina, se ne è sostituita un’altra, che non passa (per ora) attraverso commissioni ministeriali e tribunali, ma è difficilmente eludibile per due motivi: perché non è più solo italiana ma internazionale e perché si esprime attraverso l’autocensura dei mezzi di comunicazione minacciati dal boicottaggio o la chiusura dei caselli delle autostrade telematiche attraverso cui passano le idee e le informazioni. È una censura che fa cambiare nome alle squadre di football americano, blocca la nomina a commissario europeo a chi considera l’omosessualità un peccato, rimuove i tweet di un presidente degli Stati Uniti, c’impone giorno dopo giorno una neolingua, fatta di brutti calchi dall’inglese e di ridicoli eufemismi, alla quale siamo costretti a rassegnarci senza neppure l’alibi di vivere sotto una dittatura come quando il fascismo imponeva l’abolizione del “lei”, permette la messa in onda di pellicole erotiche in prima serata, ma confina dopo la mezzanotte i documentari sulle foibe. Non è per mera nostalgia senile, quindi, che non posso fare a meno di rimpiangere i miei anni Sessanta, in cui compravo di straforo i fumetti per adulti e mi sentivo grande quando appena quindicenne, con la compiacenza della cassiera e della maschera, entravo di straforo in un cinema rionale dove proiettavano Bella di giorno con la grande Catherine Deneuve. Quella, per un adolescente, era una censura formativa, che con i suoi divieti stimolava la nostra curiosità, ci incoraggiava ad arrampicarci ai piani alti della libreria paterna per scoprire nelle pagine di grandi e meno grandi scrittori del passato i misteri della vita, evitava che l’assuefazione alla nudità femminile generasse la stanchezza della carne e la conseguente morbosa ricerca di sempre nuove esperienze.
Quella di oggi è una censura dalla quale non si può sfuggire, come facevano i nostri fratelli maggiori andando a Parigi per vedere le pellicole pornografiche vietate in Italia (in compenso i francesi calavano in Italia per vedere La battaglia d’Algeri vietata da de Gaulle). Ormai infatti imperversa in tutto il mondo. Non brucia le pellicole, ma abbatte le statue, non censura l’omosessualità ma criminalizza l’omofobia, ritocca le favole per bambini e mette al bando dalle biblioteche i capolavori degli “uomini bianchi morti.” Nessuna riforma Franceschini ci affrancherà da questa censura (e autocensura) che ci è stata introdotta giorno per giorno, se non col burro di Marlon Brando, con la margarina del politicamente corretto.
Franceschini è la personificazione dell’ipocrisia faziosa.