Torna in grande spolvero l’Italia che fa e fa bene, che inventa, conquista mercati e simpatia con le sue intuizioni e con la sua libera creatività. Una vocazione già molto forte in epoca etrusca e romana, e che diventò irresistibile dal Rinascimento, quando ispirò in tutta Europa un’intera filosofia e modo di vita. Leonardo da Vinci, l’artista scienziato rinascimentale convinto che “il Selvadego è colui che si salva” (cui è dedicata questa rubrica), fu innanzitutto un formidabile artigiano, ed è uno dei maggiori ispiratori teorico pratici di questa storia di successi.
Fu la lira d’argento a forma di teschio di cavallo da Leonardo stesso progettata, eseguita e consegnata a Ludovico il Moro come dono da parte di Lorenzo il magnifico a conquistare l’ammirazione del signore di Milano e in seguito delle altre corti italiane e d’Europa. Oggi invece la creatività italiana inquieta l’Europa, o meglio la sua burocrazia, timorosa che la più espansiva politica economica adottata dall’Italia ne rafforzi la posizione di grande esportatrice di manufatti e prodotti alimentari e agricoli, già molto forte sui mercati internazionali. I suoi due grandi concorrenti europei, Francia e Germania preferirebbero naturalmente comprarsi le aziende italiane più sofisticate a sconto, anche grazie alle pressioni della speculazione finanziaria, piuttosto che trovarsele come concorrenti sui mercati internazionali. Accadde così ad esempio alla Buitoni (e molte altre),
acquistata dalla Nestlé che si sbarazzò in questo modo del concorrente, e trasferì poi in Ohio il suo centro di ricerca sulla pasta italiana.
Di tutto ciò parla: Lo stile italiano. Storia, economia e cultura del made in Italy, di Romano Benini (Donzelli Ed.), con ampia documentazione tratta da molte e diverse discipline: economia, storia, politica, cultura materiale .
Anche il fatto che i giovani leader politici italiani non stiano più al gioco della paura e delle minacce dei grandi poteri accende speranze un po’ ovunque (e corrispondenti timori). I giovani cominciano ora a intravedere dall’esempio italiano che forse si può uscire da un modello di sviluppo sbagliato, forse si può puntare non solo su prodotti e materiali scadenti ma su cose belle e buone, che diano piacere e soddisfazione a chi le produce e a chi le consuma, invece di stare tutti male, e alla fine guadagnare solo in pochissimi. Il fatto è che ciò che l’Italia produce non è solo una bizzarria di giovani politici inesperti e intemperanti, come ossessivamente ripetono i Soloni dei giornaloni, o un’antica vocazione all’anarchia. No, si tratta proprio di uno “stile” nel suo senso più elevato, di un altro modo di vita rispetto alla società dei consumi standardizzati di massa. Un modo che dalle nostre parti è di casa da sempre, e coniuga la ricerca del benessere e del piacere di “fare bene”, con la conoscenza di sé e del proprio stile, senza la quale non c’è benessere. Un modello di sviluppo già iniziato dagli Etruschi che inventarono (con realizzazioni bellissime) due oggetti come lo specchio e la maschera. Apparentemente ispirati a una vanità assoluta, e come tali riproposti per millenni. Ma contemporaneamente oggetto di profonde teorizzazioni filosofiche e spirituali: lo specchio in quanto specchio dell’anima (cui si riferisce ad esempio Socrate) e la maschera in quanto strumento da una parte di nascondimento, ma dall’altra di espressione e ricerca di sé. Naturalmente tutto questo, così come l’intero artigianato italiano, dall’orafo Benvenuto Cellini a Marinella, il napoletano re delle cravatte nel mondo, ispira un modello di sviluppo opposto e contrario a quello della produzione di massa e senza qualità della società globalizzata, sulla quale è organizzata la gran parte della società dei consumi. Un modello diverso, che proprio per
questo paga anche dal punto di vista economico, e quindi sociale. È proprio la ricerca del bello e buono infatti, e la determinazione a eseguirlo bene, ad aver consentito all’Italia non solo di sopravvivere alla pesante e lunghissima crisi durata dal 2007 all’altro ieri, ma anche di crescervi dentro, guadagnandovi importanti posizioni sia in termini economici che di qualità della vita, e compensando almeno in parte le perdite della gestione politica, che proseguiva testardamente sulle produzioni di massa, a creatività zero, utili bassi e inquinamenti elevati. Il fatto è che, come scriveva il filosofo Gaston Bachelard, l’uomo è fatto per il desiderio, non per il consumo.
La tradizione del “fare bene” caratteristica dello stile italiano, ha potuto adottare con nuova creatività il modello dei “distretti” produttivi di medie- piccole industrie dando un nuovo senso alle antiche vocazioni territoriali e alle loro straordinarie potenzialità. La loro produzione ha così recuperato abbondantemente i livelli pre-crisi, scavalcano brillantemente i rischi inevitabili nelle “economie della quantità” in cui l’Italia era stata gettata dalle politiche arcaiche, ispirate dai grandi partiti di massa al potere fino a pochi mesi fa. L’autore documenta attentamente quanto abbia danneggiato l’Italia chi aveva puntato sulla quantità senza qualità. “Questa Italia perdente – nota ancora Benini – è però ancora in campo: prova in tutti i modi di continuare a creare problemi agli italiani appellandosi all’assistenza della politica e alla ricerca del privilegio delle rendite, degli incentivi e dei favori”.
Altro grande disastro era certo stata la svalutazione e perdita di identità delle scuole professionali e la politica fiscale ostile alla fortissima tradizione delle botteghe artigiane, osteggiate per ragioni di potere dai sindacati e dai partiti di massa di cui erano espressione. Ciò ha infatti prodotto una grande disoccupazione fra i giovani privi di formazioni professionali di qualità e d’altra parte non interessati a percorsi universitari. I nè-nè, giovani che non studiano nè lavorano, un quarto circa dei giovani fra i 15 e i 35 anni, sono stati prodotti da questo disprezzo verso il lavoro manuale, da sempre privo di senso ma tuttora alimentato dalle burocrazie della vecchia politica.
Il danno provocato va oltre l’economia e ha messo a rischio saperi profondi, e l’equilibrio, anche territoriale, delle generazioni che vi sono state coinvolte. “Artigianalità, spiega infatti Benini, è la connessione tra il cuore e la mente di un luogo, il metodo con cui si esprime il sapere e il sapore di un territorio, quella unicità che va sostenuta e promossa perché non è trasferibile altrove, ed è un patrimonio per tutti”. A valutazioni simili arriva d’altra parte anche tutto l’attualissimo campo di ricerca esposto da Luca Ciabarri nella recente raccolta di saggi: Cultura materiale, edito da Raffaello Cortina.
Un rischio ancora attuale, provocato proprio dal successo dello stile italiano, è quello della sua falsificazione. Per ogni prodotto italiano venduto nel mondo come italiano ce n’è un altro che finge di esserlo, ma non lo è, come il Parmesan che non è né italiano e tanto meno parmigiano; e negli USA si scoprì che veniva addizionato con trucioli di legno ricchi di cellulosa e pessimi per la salute. Più aumenta il successo del made in Italy, più aumentano anche i falsi. Ma è solo la conferma del successo.
Il valore dello stile italiano è la scoperta che si può vivere in un altro modo. Non in “non luoghi” completamente artificiali, privi di vita e storia propria ma in territori carichi di energie creative consolidate nei secoli, con uno stile di vita attento al piacere (il gaudium, godimento, così importante anche nei Vangeli, come ricorda Benini), alla bellezza e alla convivialità, lontano dalla brutta cupezza delle ossessioni consumistiche. In un’attenzione al bello e al buono che impregna gli oggetti e chi li fa e li acquista, ma spinge anche tutti a guardare e salire molto più in alto. (Da La Verità)