Quando nel secolo XVII giunsero i primi coloni in America, si resero conto che il territorio era immenso e inesplorato, ma non era disabitato. Scienziati e antropologi ritengono che gli “indiani” discendano dai mongoli che giunsero in America dalla Siberia attraverso lo Stretto di Bering circa trentamila anni fa. Dall’Alaska si sparsero per tutto il continente. Le loro caratteristiche fisiche erano comuni ma dal punto di vista culturale erano diversi, vi erano tribù nomadi e sedentarie, alcuni erano pacifici e altri erano guerrieri, alcuni vivevano nelle capanne ricavate dal legno, altri nelle tende di pelle di animali, altri ancora vivevano in abitazioni di mattoni, fango e caverne rupestri, parlavano ben seicento lingue.
Le popolazioni stanziatesi in America centrale e meridionale raggiunsero livelli di civiltà molto progrediti come i Maya e gli Aztechi in Messico e gli Incas in Perù. Nell’America settentrionale le popolazioni erano rimaste a un stadio primitivo: non conoscevano la ruota, il cavallo, gli utensili da cucina e le armi da fuoco. Nonostante ci fossero le premesse per una convivenza pacifica le due razze vennero ai ferri corti. Le differenze portarono prima agli attriti, poi alle zuffe e sfociarono nella guerra aperta. La tecnologia avanzata degli occidentali portò alla capitolazione dei nativi americani, il tutto nascosto dall’intenzione di volerli convertire al cristianesimo, considerandoli un ostacolo da eliminare o addirittura un pericolo. Il comportamento dei coloni verso i nativi non fu altro che un elenco di trattati che poi venivano continuamente disattesi, di invasioni e annientamento e quando era necessario si corrompevano con ninnoli, prostitute e alcolici per farli rinunciare a ciò che possedevano, in altri casi si ricorreva a intimidazioni violente. Per ben tre secoli i bianchi attraverso non solo le guerre, ma anche le malattie e l’alcool commisero un vero e proprio genocidio minando il loro morale, distruggendo la loro cultura e la loro identità. Per la sicurezza dei loro insediamenti i coloni dovettero spesso affrontare la resistenza degli indiani appoggiata da nazioni europee rivali dell’Inghilterra. I primi coloni ebbero a che fare con le tribù della costa meno bellicose stabilendo relazioni amichevoli; i wampanoag istruirono i pellegrini sul come comportarsi in quella natura selvaggia insegnando loro a sopravvivere. Man mano che i coloni si addentravano nei territori invadendo i terreni di caccia degli indiani le tribù tentarono di fermare la loro avanzata.
Le continue violazioni dei diritti verso gli indiani guastarono i rapporti anche con i wampanoag portando alla guerra di re Philip (1675 – 76): anche in questo caso dopo l’ennesima violazione da parte dei coloni, gli indiani attaccarono distruggendo una ventina di insediamenti della Nuova Inghilterra e sterminando più di mille coloni, la guerra terminò anche in questo caso con l’asservimento degli indiani. I soli coloni che ebbero una certa considerazione per i nativi furono i quaccheri in Pennsylvania: nel 1682 William Penn stipulò un trattato con le tribù degli indiani Delaware che garantì cinquanta anni di armonia. I successori di Penn disattesero il trattato facendo giungere nella colonia gli scozzesi che minarono la politica di tolleranza, convinti che le tribù “paganeggianti” non avevano il diritto di esistere in quelle terre “quando i cristiani ne avevano bisogno per procurarsi da vivere”, depredando i Delaware e i loro beni.
Con la Rivoluzione americana, le guerre napoleoniche e la guerra con la Gran Bretagna del 1812 la situazione dei nativi americani non migliorò. Dal 1783 i funzionari britannici mantennero contatti con le popolazioni indiane dei Territori del Nordovest; incoraggiando i nativi a unirsi per opporsi all’espansione americana, non solo avevano rifornito di armi gli indiani, ma avevano anche appoggiato l’idea della creazione di uno stato cuscinetto indiano. L’irrequietezza degli indiani era dovuta sia alla fame di terre da parte dei coloni sia dall’incapacità del governo federale di proteggere gli indiani e garantire loro i loro diritti. La Northwest Ordinance garantì che le terre occupate dai nativi “non sarebbero mai state tolte senza il loro consenso”, tuttavia questa ordinanza veniva disattesa ogni volta dal governo per violare i diritti degli indiani.
L’espansione continuò con lo sconfinamento dei coloni nell’Indiana con la richiesta al governo federale di nuove concessioni. Con la presidenza di Jefferson si accelerò il processo di espropriazione delle terre agli indiani, il quale sosteneva che era necessario cacciare gli indiani per far posto ai coloni bianchi. Con l’acquisto della Louisiana nel 1800, Jefferson propose agli indiani di scambiare le loro terre a est del Mississippi con altre più a ovest. Per raggiungere i loro scopi il presidente Jefferson autorizzò il governatore dell’Indiana William Henry Harrison di usare tutti i mezzi possibili per costringere gli indiani del Nordovest a cedere migliaia di kmq di terre appartenenti alle loro tribù, per arrivare a tale scopo il governatore Harrison non si fece scrupolo di ricorrere ad imbrogli, corruzioni ed intimidazioni.
Tra i capi indiani che si fecero valere opponendosi all’avanzata degli americani vi fu il capo degli shawnee Tecumesh, che alleatosi degli inglesi organizzò una confederazione delle tribù nella valle del Mississippi. Per stroncare questa rivolta Harrison approfittò dell’assenza di Tecumesh impegnato in una campagna militare a sud, attaccando il suo quartier generale dell’Indiana a Tippecanoe il 7 novembre 1811.
Dopo la battaglia, gli americani rinvennero numerosi fucili di fabbricazione britannica, questo spinse gli americani a far si che il West diventasse un luogo sicuro dopo la cacciata degli inglesi.
Il centro di gravità della nazione andava sempre più verso Ovest, rispetto all’Est ormai civilizzato e simile all’Europa. Il West era più innovatore e aggressivo, per occuparlo e renderlo abitabile era necessario allontanare gli indiani da quei territori, avere un appoggio politico che incoraggiasse una politica economica e agraria più liberale, il West non era un mondo omogeneo, a sud vi erano i grandi piantatori di cotone ed era praticata la schiavitù, a nord vi era un sistema economico liberista in cui si andava sviluppando l’industria e il proletariato.
L’apertura della frontiera significò la fine dei nativi americani. Con la guerra del 1812 la resistenza delle tribù dei nativi americani era stata indebolita, il resto lo fecero la corruzione e le minacce con cui i nativi venivano obbligati a firmare trattati capestro. Alcune tribù non cedettero e il governo fu obbligato ad usare la forza per piegare la loro resistenza.
Le comunità dei nativi
L’annientamento dei nativi fu dovuto anche dallo stile di vita e dall’organizzazione sociale dei nativi, le tribù erano gruppi sociali troppo grandi e inadatte a svolgere le attività di sostentamento degli indiani, l’organizzazione sociale si fondava sul clan totemico che andava dalle trecento alle cinquecento persone; i clan erano autonomi e non avevano contatti con gli altri clan, non era infrequente che un clan della stessa tribù fosse in guerra con un altro clan e altri rimanevano in pace. Le tribù a est del Mississippi erano pacifiche e sedentarie mentre quelle delle pianure erano nomadi e guerriere. Il loro ritmo di vita e la loro sopravvivenza dipendeva dal bisonte che serviva a soddisfare tutte le necessità della tribù, dalla carne per nutrirsi, la pelle per fare capi di vestiario, calzature, tende e coperte, le ossa che servivano per fare strumenti e ornamenti, le corna per realizzare le tazze, i cucchiai, i mestoli, dai tendini ricavavano fili e corde per gli archi, dallo stomaco ricavavano gli otri per l’acqua e addirittura lo sterco veniva utilizzato come combustibile una volta seccato. In origine gli indiani cacciavano il bisonte a piedi, poi con l’arrivo degli spagnoli nel 1500 che portarono i cavalli cominciarono ad utilizzarlo per spostarsi nella prateria assieme alle mandrie di bisonti.
Nel 1875 la maggior parte delle tribù era ormai nelle riserve, sembrava scongiurato il pericolo di una guerra quando circolò la notizia della scoperta dell’oro nelle Black Hills scatenando una guerra con i Sioux. Le operazioni militari vennero affidate ai generali Nelson Miles, George Crook, al generale Wesley Merrit e al tenente colonnello George A. Custer il quale inviato nel Montana per aggirare i Sioux anziché attendere l’arrivo dei reggimenti al comando di Crook attaccò i Sioux che erano dieci volte superiori mentre il suo reggimento contava 265 cavalleggeri. Gli indiani erano comandati da Crazy Horse e Sitting Bull ed erano il gruppo di indiani più numeroso nella storia delle guerre indiane. Il 25 giugno 1876 a Little Big Horn, i Sioux fecero strage del reggimento di Custer e lo stesso Custer trovò la morte in battaglia. Nonostante la vittoria non vi furono vantaggi, gli indiani erano allo stremo senza cibo e senza munizioni e con la minaccia di ritorsioni da parte dell’esercito americano chiesero la resa.
Già dopo la guerra di secessione l’opinione pubblica americana era divisa sul problema indiano, i coloni dell’Ovest e i vertici militari sostenevano la necessità della guerra contro gli indiani e che l’unica conclusione era la sconfitta delle tribù indiane e il loro internamento nelle riserve. Bisognava costringere gli indiani ad abbandonare la vita nomade e riconvertirli all’agricoltura, a tagliarsi i capelli, ad accettare la proprietà privata, parlare inglese, imparare l’utilità del lavoro in cui le attività più umili non venissero lasciate solo alle donne. Molti esponenti che facevano capo ai gruppi umanitari cominciarono a fare pressioni per un trattamento più umano verso gli indiani, tra coloro che si batterono per una riforma favorevole verso i nativi c’erano gli ex abolizionisti Wendell Phillips e William Lloyd Garrison, il Vescovo Henry Whipple, il politico Carl Schurz, la scrittrice del Massachussetts Helen Hunt Jackson.
In realtà anche i sostenitori di queste idee riformiste erano dei visionari privi di senso pratico, dal 1870 le organizzazioni Indian Rights Association e l’Indian Defense Association convinsero il governo a varare una politica tesa a spezzare il sistema tribale per assimilare gli indiani alla civiltà di vita dell’uomo bianco. I bambini vennero sottratti ai genitori e rinchiusi in collegi speciali, venne proibito loro le pratiche religiose e i riti della tradizione indiana, a lungo andare anche questi tentativi di assimilare gli indiani si rivelarono fallimentari. Nel 1887 venne approvato il Dawes Act in cui le terre indiane venivano suddivise nelle riserve in piccole proprietà agricole familiari, nelle intenzioni dei riformatori il provvedimento doveva servire a far vivere gli indiani in armonia, le conseguenze furono disastrose, i pellirosse rimasero impoveriti da questo provvedimento che furono costretti a vendere i propri terreni ai contadini bianchi, la struttura tribale fu indebolita ma non fu sostituita da un’altra forma di organizzazione sociale alternativa. Anche le buone intenzioni distrussero una razza un tempo orgogliosa della propria identità e delle proprie tradizioni in una disintegrazione morale e fisica.