Facebook da anni raccoglie, analizza e vende al miglior offerente i dati dei propri utenti. Ora tanti fingono di stupirsene. È semplice superficialità o facebook è sotto attacco?
Gli inserzionisti che ritirano le proprie sponsorizzazioni da facebook come effetto dello “scandalo” Cambridge Analytica sono l’ultimo di una serie di interventi semplicemente risibili. Tolgono le loro inserzioni da facebook per metterle dove? Su instagram (stessa proprietà, per chi non lo sapesse)? O lavoreranno solo con google, come se non raccogliesse – seppur con indicizzazioni e algoritmi differenti – i dati dei suoi utenti con l’identica solerzia di facebook?
Google e facebook rappresentano circa l’85% delle inserzioni online. Quindi, o questi inserzionisti scandalizzati decidono di chiudere con la pubblicità online e si mettono a investire nei cartelloni sulle statali, o questa è evidentemente solo una contromossa temporanea in attesa che la tempesta passi.
Proviamo a osservare con maggior malizia. Gli stupefatti media tradizionali allargano il campo dello scandalo e suggeriscono ora che i supermedia internet (social, motori di ricerca) siano inaffidabili o addirittura pericolosi. Una riflessione forse in conflitto di interesse, se a farla sono proprio coloro ai quali i supermedia internet rubano gli inserzionisti di cui sopra. Non crediamo che il punto sia davvero quello che le grandi aziende native digitali fanno con i vostri dati: è lo stesso che fanno tutte le altre, da sempre. Anche il salumiere sotto casa, fatte le dovute proporzioni. Facebook viene accusata di violazioni della privacy per avere aiutato politicamente (fornendo a pagamento i dati degli utenti che ha sempre dichiarato di fornire) Trump/Brexit e compagnia populista cantante, ma l’impressione è che le si dica: dovevi aiutare gli altri, quelli buoni. Nessuno (giustamente) parlerebbe di privacy se facebook fornisse i dati per tracciare degli integralisti (come se già non lo facesse…). E quando facebook rimuove o blocca profili sgraditi? Nessuno scandalo? Dipende. Certo è che se lo scandalo avesse riguardato una Cambridge Analytica progressista, le reazioni e le contromisure sarebbero state sicuramente molto differenti.
Ma il punto vero qui è un altro: lo scontro tra ecosistemi mediatici che lottano per la propria sopravvivenza. Non un semplice scontro tra simpatie politiche, men che meno per la privacy, ma tra apparati di comunicazione di massa che in virtù delle proprie differenti modalità di mediazione propongono e generano sistemi politici differenti.
I media tradizionali – carta stampata, radio, televisione – hanno una struttura unidirezionale, alto/basso, bidimensionale, fatta apposta per il sistema liberaldemocratico di rappresentanza verticale, con i capi degli schieramenti che comunicano ai loro simpatizzanti i propri programmi e idee.
I nuovi media hanno invece una struttura decisamente più complessa e tridimensionale, che mette (quasi) sullo stesso piano input e output e al centro la mediazione piuttosto che l’autorità. Non è più il contenuto del messaggio, quanto le caratteristiche formali dello stesso ad assumere rilevanza pratico-politica. Questa struttura porta a una partecipazione più spinta, immediata, ultrademocratica e – secondo qualcuno – demagogica.
Da una parte abbiamo come fine la rappresentazione, dall’altra la partecipazione.
Il resto è cosa già vista dall’era moderna in poi ad ogni rivoluzione che comporti l’allargamento della partecipazione al potere: la gestione della fase post-rivoluzionaria.
Il popolo cui viene concesso nuovo potere è pronto a decidere per il proprio meglio? O c’è qualcuno che glielo deve spiegare?
Questa è la fase cui stiamo assistendo: la post-rivoluzione. Di fronte a un nuovo potentissimo strumento partecipativo, c’è chi cerca di dire “aspettate, prima vi insegno io come si usa, poi voi potrete usarlo (per fare quel che vi dico io)”.