Partiamo dai fantastici nomi: Antipasto intuitivo, Carneplastico, Saltoincarne, Ultravirile, Aeroporto Piccante, Porcoeccitato, Pollo d’Acciaio, Dolcelastico; poi le bevande, in spregio all’esotico “cocktail”, denominate polibibite: Snebbiante, Inventina, Avanvera, Brucioinbocca, Scintilla, Piùpermenodiviso, Il Rigenerante e molti altri. Alcuni libri più o meno recenti, quali Cucina futurista. Manifesti teorici menu e documenti, Contro la Pastasciutta, La cucina futurista – un pranzo che evitò un suicidio, il bellissimo e super-professionale La miscelazione futurista, riportano attenzione su un aspetto giudicato per troppo tempo secondario, per lo meno se rapportato alle espressioni artistiche o letterarie dell’avventura futurista. Un recupero, in tutta sincerità, spiegabile con l’attuale tendenza al revival, quindi quale propaggine del gusto ottocentesco, più che come esperienza originalissima e di rottura quale fu. Parimenti alla moda, l’alimentazione italica è coraggiosamente presa d’assalto, nella sua concezione pigramente tradizionale e ripetitiva, da un apposito Manifesto del 1931, scritto da Marinetti in collaborazione con Fillìa. Riguardo alle ricette, s’impegnarono attivamente Enrico Prampolini, Farfa, Mino Rosso, Tullio D’Albisola, Fedele Azari e molti altri, con il caratteristico piglio multidisciplinare: quadri che diventavano piatti, poesie e motti che si traducevano in vivande rimescolate, azioni ardimentose che si riversavano in bicchieri vivaci. Addirittura nel 1931, a Torino, aprì i battenti il Santopalato, avamposto ristorativo unico nel suo genere. Anticipando di molte decine d’anni sia la Nouvelle Cuisine che la cucina molecolare, la pionieristica e dinamica visione nutritiva futurista andò ovviamente a sbattere contro tradizioni ed abitudini consolidate. Una provocazione, anzi peggio, una bestemmia, giacché in società o alle vernici ci si poteva concedere il lusso ipocrita di apparire al passo coi tempi, ma a tavola giammai. Alberto Sordi, del resto, diverrà perfetto emblema di quell’Italia democristiana, poltronesca e pasciuta.
Popolo di pastasciuttari impenitenti, dedito a pigre adunate attorno al desco – greppia per prolungate ed estenuanti verbosità sul meteo, il più ed il meno, le malattie, il calcio, Trump – quello italiano si dimostrò, già a suo tempo, impermeabile alle sferzate novatrici, tant’è che dal caliginoso caminetto con paiolo fumante della civiltà contadina ai feticismi parolai dei prodotti tipici e dell’insopportabile show cooking (questa sì, una bestemmia: tanto meglio la sagra della porchetta), è cambiato tutto fuorché la sostanza. Mangiare! Mangiare come se una carestia fosse sempre dietro l’angolo. Con l’aggravante, tutta virtuale, di far foto onaniste a spaghetti fumanti (che poi s’appanna lo smartphone). Popolo di affamati cronici, insofferente alle code tranne quando al termine delle medesime, vi sia anche solo l’ipotesi di una fetta di salame “a gratis” – risaputo che alle mostre d’arte ci si va solo per il rinfresco, a maggior ragione se con posa intellettualoide e tartine infilate di soppiatto nelle tasche – masturbatorio nel prostrarsi, come pubblico supino e inebetito, dinnanzi a spadellatori catodici che nel frattempo hanno smesso di faticare; ma pure nelle alte sfere dotte, pronto a saltare sul fornello dei vincitori. Accorrete, accorrete! Chi non scrive di cucina? Chi non ne discetta con la supponenza dell’esperto? Il blogger che fino a ieri si spendeva in cervellotiche analisi della postmodernità, ora ha piantato cavolfiori autoctoni bio dietro a casa, pensando bene di raccontarne pubblicamente l’emozionante crescita. Piuttosto dei broccoli, meglio i bambini.
Il mestiere di mangiare, dunque. “Perché il cibo è cultura”, dicono, non accorgendosi che questa congestione d’analisi ha prodotto morbose ossessioni, come il mistico veganesimo e la sua reazione pauperista, oppure le dilaganti allergie. Come siamo delicati, a forza d’essere imboccati dai media, c’è venuto il vomito. Nel frattempo la “dieta mediterranea” batte la fiacca, ora ci s’imbelletta con microproduzioni che forse nemmeno esistono. Bastano packaging, marketing e American Express Centurion per pagare il doppio ciò che costava la metà. Nemmeno fossimo a messa, anche se qualche collegamento indubbiamente c’è. Desacralizzare il cerimoniale, introducendo elementi fantasiosi e anarchie sorprendenti. Il manuale da tavola futurista ribalta bon ton da eunuchi e automatismi mentali per signorine cresciute a Jane Austen e nutella: ozono e raggi ultravioletti piuttosto, in luogo d’antichi sapori e fiaccanti untuosità. Partiamo dal dolce, anzi no, dal caffè o dal digestivo, concluderemo con antipasto ed aperitivo, nel mezzo riso in luogo della soporifera pastasciutta. Basta posate! Addio a pizzi e merletti, superflue argenterie delle quali s’ignora l’utilizzo, inglesismi vittoriani da vetrinetta. Tutti baloccamenti per ubbiosi. Poi gli aspetti sensoriali, colori odori e rumori, applicati alle ricette con l’intento di stimolare percezioni simultanee inedite. L’atto gioioso, insomma, di trasformare la materia prima senza timori reverenziali. “Ma un tortello ripieno di bulloni e ingranaggi, tu lo mangeresti? – Perché no, ho lo stomaco d’acciaio!” Altroché pasta fatta in casa, per certo Marinetti avrebbe preferito quella fatta a macchina, più veloce, brum-brum gnam-gnam cin-cin! D’altronde si sta cianciando di futuro sterco, mica di una tela del Caravaggio o di Boccioni.