“E non sono triste ma sono stupito, se guardo il giardino, stupito di che? Non mi sono mai sentito tanto bambino, stupito di che? Delle cose, i fiori mi paiono strani, ci sono pur sempre le rose, ci sono pur sempre i gerani. A mia madre lascio tutto da ristirare, a mio padre lascio qualche punto di sospensione, al mediterraneo scoglio lascio la mie memorie, alla bagnante e alle sue pose un epistolario immaginario – che detto in parole povere, rimarrà disperato amore – agli amici lascio la mia raccolta di lecca-lecca, ai nemici lascio i sacchi grigi dell’immondizia, al destino dicesi mortale, lascio quel distacco necessario, saluti e baci da levante, una cartolina è sufficiente per rimanervi accanto, mittente: cordialmente vostro; al futuro lascio il codirosso, lascio il ramo, proscenio del suo canto, il breve volo, il salto corto. (… e con la matita nera…)”
Da Il Testamento del Dandy Guido – Le Masque
L’infanzia, le donne, lo stile, l’amore. L’immaginario desueto dei Le Masque, ensemble musicale milanese attivo da fine anni ’70, fluttua gravosamente all’indietro, in una memoria dettagliata non sempre felice, ma di certo maggiormente conciliante con le umane vicende rispetto all’oggi, rispetto a questo sperpero di vacua prosopopea comunicativa. Prendiamo il tranvai, una mongolfiera con atterraggio La Rinascente, la carrozza in papillon, arriveremo forse a piedi, di certo ubriachi in anticipo. Ma quantomeno ben vestisti. Ci sarà d’attendere, meritevoli di disdetta all’ultimo. Una wunderkammer poetica ed esclusiva, retroattiva in ceramica ed ebano, che dischiude – tra lacrime bataviche di lampadari novecenteschi da salotto e balconi con gerani – tutto il pudore di una borghesia da poco emancipatasi dalle foto in bianco e nero dell’eterno dopoguerra. Il giorno del ripostiglio, ad esempio, acquerello da pianobar sul traumatico passaggio adolescenziale, nel viatico impervio tra la camera dei balocchi e l’apparizione estatica della femminilità ancora proibita. Dalla madre alla moglie, nel mezzo estati ed inverni a guardar fuori dalla finestra, cercando di nascondere bene sotto al letto quei giornaletti sconci. Le donne, l’attrazione, il desiderio per l’appunto, nel farsi uomo del ragazzo, nel farsi poi dandy – dopo i soldatini, le costruzioni al meccano, le fate, ed il sangue cinema – per troppa sensibilità. Piccoli miracoli da ballatoio del domestico saltimbanco, stupori dietro le tapparelle lasciate a metà, dal fumetto allo spionaggio, dal giocattolo all’amore come ipotesi mistica. Contesto non dissimile da quello tratteggiato da Pietrangelo Buttafuoco, ne Il dolore pazzo dell’amore. Trompe-l’oeil enigmistico, indolenza di pose e paltò cadenti su gamba accavallata: sigaretta? Porgere rapido il fuoco. Lei è di fronte a te, che fare? Arrenditi accomodante.
Romanticismo come non s’usa più dacché la plebe virtuale impera pornografica e baldanzosa, con i suoi sterili piatti di spaghetti fumanti, fotografati tramite telefono, nei monolocali forati e giallini, nei sushi-bar rococò. Le Masque la mettono giù frontale, sensuale, come in un dipinto di Jack Vettriano; parole scomparse, divorate dai pesciolini d’argento negli abecedari, parole che si pensava di volere dire un bel giorno, passeggiando per i boulevard mentre gialle foglie cadevano sulle teste dei presunti amanti; amnesie, uno sguardo frugale alla caviglia sopra il cinturino dalla scarpa con tacco alto – aperitivo, offro io, Champagne – giusto per concedersi il tempo d’immaginare il seguito. L’attesa, la donna elegante, i vestiti che cadono, l’attimo prima della nudità. “Disegnerò un fondoschiena tutto blu”, così nell’omaggio a Versace intitolato La lunga notte di Gianni. Rituali musicati di fascinazione decadente, con quella vaga sensazione di fallimento, in realtà null’altro che cornice laccata indispensabile per rendere quadro il desiderio. “Le donne riverse sui letti sono isole infinitamente perdute nel mare dei loro sogni, popolate di un silenzio mobile di flora, e i loro sogni si perdono nel mio sangue. Sono isole piene di animali dolci e furtivi. Perché, attraverso un’inquieta mitologia, ne abbiamo fatto delle anime, delle dee, compagne improbabili di noi, poveri dei?”, citazione di Pierre Drieu La Rochelle, all’interno del libretto del cd Dal diario di un soffiatore di vetro. L’uomo pieno di donne, colui che riesce a far miracoli per troppa ammirazione: Vediamoci, non ci rivedremo mai più, questione di carta da parati. Non siamo ragionieri, questa non è una banca.
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Edgardo Moia Cellerino, cesellatore di liriche per Le Masque, pesca da Gozzano, Buzzati, Brel, Baudelaire: “quando una parola, davvero sola, è poi importante, nasconde i pentimenti, tra noi che fummo amanti, o almeno credo sia così”. Bossanova, liquidi jazzismi, balere mistiche, Francia d’altri tempi, Milano Campari da impermeabili evanescenti nella nebbia, calici di vino e ricordi mai offesi. Tutto lo stile del dichiararsi amanti, tutto il coraggio di tenere un diario scritto a penna, vermouth e tabacco, rose e cravatte, sguardi e canzoni, addii. Atto eroico, atto di corteggiamento infinito, atto d’amore per la donna, senza la quale non potremmo vivere. Nemmeno adesso, nemmeno con i dettagli di ieri.