*Pubblichiamo l’articolo comparso sul Corriere della Sera del 2 settembre 2015 a firma di Eugenio Di Rienzo sulle evoluzioni nel dibattito storico inerente il caso del carteggio tra Gran Bretagna e Italia alla vigilia dell’entrata italiana nella seconda guerra mondiale.
La caccia al carteggio segreto tra Churchill e Mussolini, dove il premier britannico, prima del 10 giugno 1940, invitava il capo del fascismo a far entrare l’Italia in guerra a fianco della Germania per mitigare, in caso di sconfitta del Regno Unito, le pretese di Hitler al tavolo delle trattative, ha impegnato per quasi settanta anni, storici della domenica, inguaribili nostalgici del Ventennio nero, giornalisti in cerca di scoop, spregiudicati editori. Solo, nel marzo di quest’anno, come ha scritto Paolo Mieli sulle pagine del «Corriere», questa caccia si è ufficialmente chiusa, definitivamente ci auguriamo, grazie all’importante lavoro di Mimmo Franzinelli (“L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini”, Rizzoli).
Nel suo studio Franzinelli ci ha rivelato con meritoria pignoleria la lunga storia di falsificazioni e di manipolazioni che si è sviluppata intorno al fantomatico commercio epistolare. Inventato di sana pianta e costruita con molta rozzezza è, infatti, lo schema di accordo dell’11 aprile con la quale l’inquilino di Downing Street chiedeva all’ospite di Palazzo Venezia di catapultare il nostro Paese nella tragedia del secondo conflitto mondiale, in modo da «aiutare la Gran Bretagna nella futura conferenza di pace a frenare il militarismo tedesco e a ottenere la vittoria finale contro di esso», promettendo l’intervento del Governo di Sua Maestà per sostenere le rivendicazioni italiane verso la Francia e per «ripristinare i diritti dell’Italia sul Mediterraneo». Egualmente contraffatta, come numerose altre missive, era la risposta 4 maggio, dove il Capo del Governo italiano informava Churchill di aver ottenuto il consenso di Vittorio Emanuele a quell’accordo.
Tutto falso, tutto da buttare in quel carteggio? Assolutamente sì. E, a titolo di direttore di una rivista storica, voglio qui pubblicamente ringraziare Franzinelli, sicuro che, dopo il suo libro, la mia redazione non sarò più invasa, come tante volte è accaduto, da clamorose rivelazioni sulla diplomazia segreta di Mussolini, opera di pseudo-studiosi dominati dalla teoria del complotto. Come analista del passato, devo però rimproverare all’autore dell’Arma segreta del Duce un errore di metodo e un’insufficienza nella ricerca archivistica che si collegano l’uno all’altra, dando vita a un circolo vizioso storiografico.
Per il primo punto devo dire che l’aver dimostrato che lo scambio di missive tra Churchill e Mussolini della primavera-estate del 1940, in nostro possesso, è un apocrifo non vuol dire che non siano esistiti in quello stesso periodo, come Franzinelli presume, negoziati o magari semplici pourparlers con l’Italia, attraverso i quali Francia e Inghilterra cercarono di ottenere l’assicurazione che il Duce in una futura conferenza di pace avrebbe speso la sua influenza a loro favore, in cambio di una sostanziosa contropartita ma soprattutto al fine di arginare la preponderanza del «Reich millenario». Per il secondo punto, mi spiace dover osservare che quanto afferma l’autore dell’”Arma segreta del Duce”, e cioè che ogni rapporto tra il Mussolini e i leaders delle democrazie liberali si sarebbe interrotto il 19 maggio, dopo il secco rifiuto di Palazzo Venezia a prendere in considerazioni gli inviti di Churchill e Roosevelt a non seguire Hitler nell’avventura bellica iniziata nel settembre 1939, costituisce una grave imprecisione. Un’imprecisione che Franzinelli si sarebbe potuta facilmente risparmiare con un più lungo e fruttuoso soggiorno di studio nei Nationals Archives britannici o più semplicemente grazie a un’attenta lettura dell’ultimo capitolo del lavoro di Emilio Gin, “L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento. Settembre 1938 – Giugno 1940!”, pubblicato da Nuova Cultura Editore nel 2012.
Negli archivi di Londra, sono conservati, sotto il titolo “Suggested Approach to Signor Mussolini”, i verbali della riunione del War Cabinet del 26 maggio 1940. In quella data, previa intesa con il governo di Parigi, l’esecutivo britannico decideva di inviare a Roosevelt una bozza di accordo, che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto sottoporre all’attenzione di Mussolini. Nel testo, le Potenze occidentali, nel momento in cui il fronte francese si era letteralmente sbriciolato sotto la spallata della Blitzkrieg scatenata dall’esercito tedesco, chiedevano al Duce di offrire la sua collaborazione nelle future trattative con la Germania per assicurare una soluzione di tutte le questioni europee, da cui dipendeva «la sicurezza e l’indipendenza degli Alleati» e la possibilità di garantire «una pace giusta e duratura all’Europa».
Qualora Mussolini avesse accettato questa proposta, Londra e Parigi s’impegnavano a non aprire nessun negoziato con Hitler, se questi non avesse consentito all’Italia di partecipare, nonostante il suo status di non belligerante, alla conferenza di pace. Inoltre Churchill e il Primo ministro francese, Paul Reynaud, promettevano formalmente, sotto la malleveria degli Stati Uniti, di ricompensare il governo di Roma soddisfacendo «tutte le sue legittime aspirazioni nel Mediterraneo» che all’epoca comprendevano, in primo luogo, l’internazionalizzazione di Gibilterra e la partecipazione al controllo del Canale di Suez, oltre importanti acquisti territoriali nell’Africa francese.
Il cammino per arrivare a questa iniziativa era stato difficile e contrastato. Churchill aveva dovuto, infatti, superare le resistenze di Reynaud, che alla fine si era arreso, contando sullo «sconforto che l’idea di un’Europa dominata da Hitler doveva causare in Mussolini». Anche Roosevelt aveva recalcitrato all’idea di un suo nuovo intervento su Palazzo Venezia, dopo la cattiva accoglienza ricevuta da un suo precedente messaggio, che era stato definito dal Duce un’indebita ingerenza nella politica italiana. Per vincere la ritrosia di Washington, il premier britannico aveva incaricato il Segretario agli Esteri, Halifax, di abboccarsi con l’ambasciatore italiano a Londra, Bastianini, per sondare gli umori di Palazzo Venezia. L’incontro, svoltosi nel pomeriggio del 25 maggio, durante il quale Halifax aveva consegnato al nostro diplomatico la bozza della lettera di Roosevelt, era stato positivo.
Con tutte le cautele del caso, Bastianini, che certo non parlava a titolo personale, informava Halifax che il Presidente del Consiglio italiano non avrebbe opposto nessun pregiudiziale rifiuto a partecipare a una «peace conference by the side of the belligerents». Mussolini, aggiungeva Bastianini, era interessato a risolvere tutte le questioni europee, e in particolare ad arrivare a un’equa sistemazione politica e territoriale della Polonia, e aveva sempre pubblicamente manifestato il vivo desiderio di costruire un «accordo generale sull’Europa» che non avrebbe dovuto essere «un semplice armistizio» ma piuttosto un patto di sicurezza collettiva in grado di «salvaguardare la pace del continente per almeno un secolo».
Nella mattinata del 27, l’ambasciatore americano Phillips, dopo aver appreso il rifiuto di Mussolini di concedergli udienza, consegnava la lettera di Roosevelt a Ciano, ribadendo che, in caso di risposta positiva, il Presidente degli Stati Uniti sarebbe divenuto «personalmente responsabile per l’esecuzione, a guerra finita, degli eventuali accordi». Con perfetto tempismo, in quella stessa giornata, anche l’ambasciatore francese François-Poncet incontrava il nostro ministro degli Esteri, annunciandogli che, con l’esclusione della Corsica, la Francia era disposta a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull’Algeria». La replica di Ciano non lasciava, però, adito a nessuna speranza. La decisione di entrare in guerra era stata ormai presa e se anche il Duce avesse potuto avere pacificamente il doppio di quanto da lui reclamato, egli avrebbe rifiutato.
Come ha scritto Emilio Gin, la rinuncia di Mussolini a prendere in considerazione il piano di Churchill obbediva a un calcolo razionale che poco aveva a che fare con l’infatuazione bellicista che gran parte della storiografia italiana gli attribuisce. Il Duce, infatti, non avrebbe potuto tollerare di partecipare ai colloqui per la pace, accanto ad un Hitler trionfante, solo per gentile concessione di Giorgio V e del suo fiacco alleato. In questo caso, la sua posizione sarebbe stata debolissima, del tutto ininfluente, e il Führer, divenuto padrone assoluto del gioco, avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il Neue Ordnung nazionalsocialista, eliminando dalla scena politica Nazioni Neutrali, Paesi occupati, Alleati e la stessa Italia. Solo dopo aver partecipato al conflitto, al “modico” prezzo di «un pugno di morti» per sedersi al tavolo delle trattative, Mussolini poteva dunque far sentire la sua voce con la fondata speranza di essere ascoltato.
Come, il 28 maggio, Ciano fece intendere al ministro d’Inghilterra, Percy Lorraine, non esisteva altra via d’uscita dalla guerra scatenata dal Reich se non la partecipazione italiana al conflitto. Si trattava un messaggio cifrato, volutamente ambiguo, che pure fu perfettamente inteso dalle Cancellerie alleate. Fu soprattutto Parigi a penetrare il senso di quell’enigmatico avvertimento e comprendere che nei piani di Palazzo Venezia l’intervento italiano doveva costituire il contrappeso necessario alla vittoria di Hitler. Il 2 giugno, infatti, il Ministro francese della Difesa e degli Esteri, Daladier, sosteneva che il governo di Roma intendeva iniziare una «guerra a termine», che non aveva «precedenti nella storia diplomatica».
Dopo sei giorni, il Sottosegretario del Quai d’Orsay Baudouin manifestava al nostro ambasciatore a Parigi, Guariglia, la speranza che Italiani e Francesi potesse adoperarsi nel futuro per colmare l’abisso che attualmente li separava perché alle due Nazioni latine non conveniva né una pax britannica né la vittoria completa di Hitler. La risposta dell’italiano, sebbene fornita a titolo strettamente personale, veniva incontro a quel desiderio. Guariglia replicava che, considerando che il Duce aveva sempre avuto a cuore «la necessità della ricostruzione europea», da raggiungere mediante «una giusta e intelligente politica evolutiva», era forse possibile ipotizzare che egli, in questo triste momento, pensasse di «arrivare agli stessi risultati attraverso la via della guerra».
La più forte conferma al fatto che, anche dopo il 10 giugno, Mussolini non intendeva recidere il filo del colloquio con Parigi e Londra è, sempre secondo Emilio Gin, nelle istruzioni impartite agli Stati Maggiori delle nostre Forze Armate, poco prima dell’inizio delle ostilità. Se si eccettua l’offensiva italiana sulle Alpi occidentali, iniziata con inspiegabile ritardo solo il 21 giugno, la guerra del Duce doveva essere, per sua stessa ammissione la replica di quella «guerra seduta» (Sitzkrieg), che per quasi un anno aveva opposto, senza grande spargimento di sangue, gli Alleati e i Tedeschi sul suolo francese. All’Esercito, che con una manovra a tenaglia dalla Libia e dall’Etiopia, avrebbe potuto seriamente minacciare l’Egitto, fu ingiunto di restare con l’arma al piede senza prendere nessuna iniziativa. Alla Regia Marina, che era in condizioni di disturbare efficacemente, se non addirittura di interrompere, i movimenti dei convogli britannici nel Canale di Suez, si ordinò di aprire il fuoco solo se attaccata. All’Aeronautica si diedero disposizioni di soprassedere «fino a nuovo ordine a qualsiasi operazione offensiva» e di vietare ai propri aerei di portarsi a più di dieci chilometri dal confine con la Francia.
Furono, inoltre, annullate le incursioni su Gibilterra e Alessandria d’Egitto, già da tempo programmate e fu ridotto d’intensità il bombardamento di Malta dell’11 giugno. Fino a quando i raids effettuati da 36 velivoli della Raf, che nella notte del 12 giugno colpirono Torino e Genova completamente illuminate, come in tempo di pace, non provocarono una escalation militare italiana, era dunque intenzione del Duce di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare il rapporto con Churchill nella futura conferenza di pace, dove sarebbe iniziata la guerra vera, quella contro Hitler.
Dopo questo lungo periplo, torno, ora, al punto di partenza. A differenza di Franzinelli e di molti altri storici mainstream, io concordo con Renzo de Felice nel ritenere che, con buona verosimiglianza, la logora borsa di cuoio che Mussolini trascinò con sé nella sua fuga da Milano doveva contenere materiale scottante. Forse non dei documenti che potevano valere per l’Italia «più di una guerra vinta», come il Duce confidò a Pavolini, ma certo delle testimonianze in grado di mettere in seria difficoltà il governo britannico. Allo stesso tempo reputo però che, se questa documentazione è esistita, sia del tutto inutile cercarla perché essa è stata distrutta o sepolta in luogo inaccessibile, nei giorni immediatamente successivi l’uccisione di Mussolini. Uccisione resa possibile, occorre ricordarlo, da un colpo di mano organizzato, come i lavori di Mauro Canali e miei hanno dimostrato, dallo Special Operations Executive, l’organizzazione terroristica che, dall’inizio del conflitto, Churchill aveva posto sotto il suo comando diretto.