Accade, negli ultimi tempi, che la memoria di Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene, altresì abbreviato per consuetudine in C.B. – attore, drammaturgo,regista, scrittore e soprattutto antitesi personificata di tutto ciò, nato a Campi Salentina nel 1937 e morto a roma nel 2002– venga fatta oggetto di sbrigativi riassunti, bignamini a scopo social-divulgativo o, peggio, ad uso egopatico emulativo: superficiali appropriazioni indebite tese a sottolinearne sommariamente l’impeto iconoclasta o le pose da ingestibile guitto. All’origine del misfatto vi sono le due memorabili partecipazioni alla trasmissione televisiva Uno contro tutti del Maurizio Costanzo Show, correvano gli anni 1994 e 1995, più o meno corrispondenti con l’inserimento dell’opera omnia beniana nella collana classici Bompiani. Vi furono molte altre occasioni mediatiche che videro Carmelo Bene ospite del piccolo schermo – qualcuno ricorderà forse l’apparizione situazionista al frivolo programma Macao (Boncompagni alla regia) con una esterrefatta Alba Parietti alla conduzione – giacché l’uomo non disdegnava di trattare gli argomenti più disparati (a patto di poter fumare liberamente in studio), sovente anche sportivi come ben testimoniato dal dialogo con Enrico Ghezzi raccolto poi nel volumetto Discorso su due piedi (il calcio). Eppure, nonostante l’eccezionalità di questi exploit catodici rispetto all’idiozia generalizzata connaturata al mezzo, l’opera di C.B. non è affare riguardante il semplice intrattenimento e nemmeno può essere maneggiata grossolanamente, senza prima sondarne il complesso retroterra filosofico e letterario.
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Osannato dai circoli intellettuali progressisti, fin dagli esordi, per la vocazione sperimentale del suo anti-teatro destrutturato, è divenuto poi, soprattutto a causa delle intemerate antidemocratiche e delle invettive contro gli automatismi mentali del recinto moralista e “sociale”, statuina ribelle nel presepe della destra. Elitario nei riferimenti quanto nazionalpopolare nella manifestazione del gesto artistico, si pensi alla Lectura Dantis dalla torre degli Asinelli a Bologna, accolta da una folla sterminata, Carmelo Bene è tuttavia destinato a rimanere un alieno se non s’intende scendere assieme a lui negli inferi, negli abissi di radicale nichilismo che ne permearono il pensiero. Ancora prima della scena, dietro le quinte: è impossibile intendere il codice espressivo, “macchina attoriale”e phoné su tutto, senza tener conto di Schopenhauer, Nietzsche, Lautréamont, Deleuze, Deridda, Joyce, de Sade e di molti altri, centrifugati dall’artista con imprevedibile genialità insieme a suggestioni mistiche, parodie grottesche e letteratura classica. Quindi niente scorciatoie, visto che si tratta di affrontare la vertigine del tragico è il caso di non prendere la faccenda troppo alla leggera: l’effetto destabilizzante – si pensi ad esempio al Pinocchio collodiano reso quasi gotico o alle corrosive riletture di Dino Campana e Guido Gozzano – è propedeutico all’apologia del Nulla, all’oscenità (fuori-scena) del deambulare collettivo all’interno di un’esistenza già recitata, simulata e stremata dalle attribuzioni di senso, deragliata infine nei pressi di un’evanescenza solipsistica, in una lasciva allegoria dell’inutile.
“Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio”. Ecco, in questa frase tratta dal capolavoro (letterario, cinematografico e radiofonico) Nostra signora dei turchi, si possono cogliere tutti i vagabondaggi reazionari di Bene, tutte le sue corrosive sentenze. Non si tratta di sostenere una tesi, bensì di fare di sé stessi un campo di battaglia: una tensione animale e celebrale continua, finemente ricamata dal “suono” estetico della parola e dalla maschera barocca, rende l’ordito beniano estremamente raffinato anche nella caduta, nella pozza di sangue e fango dove inevitabilmente tutto finirà per sprofondare. Assieme alle riletture e agli stravolgimenti dei classici da parte di un “classico”, si pensi all’Amleto, impossibile prescindere dalla folle parentesi cinematografica; oltre al già citato Nostra signora dei turchi, schizofrenico psicodramma, affresco di sacralità e blasfemia di un Sud accecante, occorre ricordare la lussuriosa, psichedelica, trasposizione filmica della Salomè di Oscar Wilde (a tal proposito la rivista Il Borghese invocò addirittura l’intervento dei Carabinieri). Dietro gli eccessi e le alterazioni, al di là della dissoluzione etica e carnale, resta il fatto che nessuno ha eguagliato Carmelo Bene nella capacità di fare alchemica sintesi di dono e sperpero. Oltre e contro il teatro, inteso come artefatto retorico e corporativo, egli rappresenta tuttora perfettamente la sfida alla quale è chiamato l’artista, quella di infrangere codici per crearne di superiori.
Quel “celebrale” nobilita la trattazione… restituendo l’estensore ai “ceRebrum non habent”!