Colpisce la patologica coazione e la cecità fondamentalista con cui ancora oggi qualcuno insiste – sui giornali e nei libri – a utilizzare l’espressione “liberal-democrazie” o “democrazie liberali” come se fosse l’ovvia traduzione semantica di un dato acquisito, di un concetto forte di una sua qualche intrinseca verità ontologica.
Colpisce perché, a chiunque voglia contemplare con occhi scevri da pregiudizi o da ottusità sclerotizzate lo stato dell’economia mondiale alla fine di questi primi tre lustri del XXI secolo, risulta evidente come non solo l’espressione non rispecchi alcuna “verità rivelata”, ma sia anzi – al contrario – un evidente ossimoro.
Una onesta e disincantata disamina del quadro economico mondiale e di quello delle cosiddette “democrazie liberali” in particolare – infatti – non può andare disgiunta da un altrettanto oggettiva analisi delle sue implicazioni e conseguenze di carattere sociale e politico e l’impietoso risultato che ne deriva inevitabilmente, la dice lunga sulla evidente contraddizione fra i due termini.
Il liberalismo politico e il suo cotè economico (il liberismo, ma non solo, perché siamo tutti consapevoli del fatto che le maggiori economie “liberali” del pianeta – quelle di USA e Germania – sono in realtà ferocemente mercantiliste e che su ogni elemento legato all’economia reale predomina la logica del profitto immediato, costi quel che costi, conseguenza automatica della finanziarizzazione dell’economia globale, ma anche del dominio acquisito – sul piano “antropologico” prima ancora che economico – dal modello Ricardiano, con conseguente riduzione del lavoro umano a una merce come tante altre, anzi a buon mercato) hanno espresso come proprio unico portato durevole e certo, una allucinante “crescita” della diseguaglianza su scala planetaria e consentito l’accentramento del 90% della ricchezza mondiale nelle mani di una ristretta oligarchia transnazionale che vale a malapena il 10% della popolazione globale. Mi pare difficile contrabbandare questo per democrazia sostanziale. Non può esserci nessuna democrazia autentica senza modelli economici realmente redistributivi e una filosofia politica (per il principio di non-contraddizione ostile al liberalismo politico ed economico!) che anteponga l’interesse collettivo a quello dei potentati economici.
Su questo Thomas Piketty ha scritto nel suo Il Capitale nel XXI Secolo tutto quello che è necessario sapere ed è quindi inutile ripeterlo in questa sede.
Aggiungo tuttavia che nel caso specifico delle cosiddette “democrazie liberali” dell’Europa, sempre in nome della “liberal-democrazia”, si è anche proceduto a implementare una cinica ingegneria istituzionale (il cui attuale risultato e l’Unione Europea e nel suo ambito quel capolavoro all’incontrario che è l’eurozona), in cui l’incompatibilità fra ispirazione liberale e applicazione di una democrazia sostanziale e andata oltre, tramite un esplicito meccanismo di trasferimenti di sovranità e di attribuzione di poteri a organi “tecnici” (cioè oligarchie burocratiche non elettive), che ha finito per rendere l’effettiva applicabilità alla UE nel suo insieme dell’aggettivo “democratica” molto, ma molto dubbia.