Caro direttore,
è tutto un gran parlare di presidenziali all’italiana in un momento in cui il Capo dello Stato ha fatto sapere che non parteciperà, il 27 gennaio, alla celebrazione della Giornata della Memoria. Lo ha fatto sapere ai presidenti delle due camere, e quindi e insomma Giorgio Napolitano è in procinto di porre fine al suo rinnovato settennato al Colle anzitempo come del resto aveva ampiamente annunciato durante il suo secondo discorso di insediamento davanti all’assise plenaria.
Trattasi quindi di individuare un nome per il dopo. E pur essendo un tema che poco appassiona gli italiani, ormai lontani dal nonno della Patria, il banchiere livornese Carlo Azeglio Ciampi – che di simpatico, per alcuni, poteva vantare solo le frequentazioni conformi e conformiste di una certa sinistra glamour alla Benigni – adesso qui bisogna individuare “una persona che possa mantenere un alto profilo istituzionale e che si sia contraddistinta per il proprio operato nella società civile”.
Figlio del Patto del Nazareno è il nome di Walter Veltroni, benché adesso si corra ai ripari in casa forzista. Qualcuno parla di Mario Draghi, una vera sciagura per l’Italia, non tanto perché incapace di presiedere il Palazzo del Colle Quirino, quanto piuttosto perché verrebbe meno alla sua minima funzione di garanzia dentro la BCE, vale a dire ultimo avamposto in grado di acquistare titoli di Stato non avendo l’Ue mai voluto adottare una politica di Euro Bond. C’è Prodi che torna sulla scena, ma è impraticabile nei numeri. C’è, ovviamente Giuliano Amato non fosse per tutta quella serie di strane pendenze che lo riguardano più o meno da vicino e che lo legano mani e piedi alle vicende più torbide dell’ultima stagione bancaria italiana, vale a dire quella che va dal biennio delle grandi fusioni del 2006-2008 e che è stato il periodo madre dell’Antonveneta per il Montepaschi e quei giri ancora tutti da chiarire tra Opus Dei, IOR e Banco Santander. Si dirà che per una carica così importante serve un nome altisonante; ma anche in questo caso si cadrebbe nella retorica di complemento.
Per fugare l’ingerenza politica di Napolitano serve adesso un nome di rottura. Altro che Gianni Letta, altro che Silvio Berlusconi. Il candidato naturale è Vittorio Feltri. Non è una boutade, bensì una semplicissima costatazione dettata dal pragmatismo. Come dice il Premier, pur ignorandone il significato, viviamo tempi di postideologia: Vittorio Feltri è stato socialista, e come tale è un garantista sincero. Ha una carriera alle spalle nel mondo del giornalismo che può fare il paio solo con quella di Indro Montanelli. Ha diretto, con successo, i maggiori quotidiani d’Italia. Ha un profilo condiviso, nel bene o nel male (più nel male che nel bene), da entrambe le fazioni politiche.
È un bastian contrario, anticlericale e quindi lealmente laico, liberale moderno, che si è inventato pure – attraverso la signorina Pascale – la genialata di iscriversi all’Arci Gay per il riconoscimento, da destra, delle unioni civili. Quanto alla sua potenziale azione di presidenza, Feltri è un cronista di razza: agisce e valuta in base agli elementi che vede. Sciogliere le camere, elezioni, sono tutte eventualità di cui non potrebbe non tener di conto, a differenza dei numi tutelari dell’ordine torbido ed eterodiretto.
Direte voi: e chi lo vota? Pd e Forza Italia si toglierebbero dalle scatole un fustigatore, uno che li ha sempre inchiodati alle loro responsabilità e che dopo anni di giornalismo, tra cronaca e politica, è assurto alla dimensione del racconto di una commedia all’italiana, ovvero raccontare il nostro peggio non credendo più nel nostro meglio… Il M5S ha con lui in comune alcune battaglie non ideologiche bensì di buon senso. Ecco, il buon senso è ciò che serve in un’era in cui tra un accomodamento di qua e uno di là è vero tutto e il contrario di tutto.
E poi volete mettere il discorso di fine anno? Feltri in tv funziona, sa parlare, ha una vis comica tipica degli orobici, saprebbe allestire un discorso del 31 dicembre senza che le famiglie italiane si addormentino su cotechino e lenticchie. Ha l’età giusta per essere capo dello Stato ma ha la testa del giornalista: curioso, stimolato, giovane. Ecco, non è un fatto anagrafico a differenza di quello che dice Renzi. Feltri è un ragazzino davanti allo scout di Rignano sull’Arno. Ha il difetto d’origine di essere stato per anni il giornalista del berlusconismo, solo che lui ha sempre rispedito, e giustamente, al mittente le critiche: “Io berlusconiano? Semmai è Berlusconi che è feltriano”. È un uomo pragmatico, è elegante, si veste meglio di Napolitano. Come tutte le menti giovani ed irrequiete ci regalerebbe pure un grandissimo colpo di teatro: dimettersi prima dei sette anni con la lapidaria motivazione: “Mi sono rotto i coglioni”. Ed è anche così che si è il presidente di tutti.