Ma davvero c’è stato un complotto ai danni di Berlusconi nell’estate 2011, come vorrebbe far credere l’articolo di Alan Friedman uscito recentemente per il Financial Times? Ipotesi già praticata da più parti senza grande successo, e questa volta resa appetibile dall’autore non italiano (che fa più credibile) e dalle interviste a Prodi, Monti e De Benedetti.
In realtà nulla di nuovo nell’analisi di quei fatti, soprattutto se si pensa al termine “complotto” come a qualcosa di puramente complesso e complicato. In questo senso è la democrazia stessa a nutrirsi di complessità. Non fosse così, verrebbe meno la logica principe della rappresentanza elettorale quale momento ciclico della semplificazione del conflitto. Una semplificazione virtuale, nascosta poi all’interno dei giochi di potere dei vari Palazzi nazionali ed internazionali.
E’ proprio per questa virtualità che Berlusconi si è trovato, democraticamente e costituzionalmente, a sostenere prima Monti, poi la rielezione di Napolitano e, per finire, il governo Letta. Insomma, sostenitore volontario di tutti coloro che, in tempi meno democratici, sarebbero stati giudicati per alto tradimento.
Così, laddove tutto è complotto, nulla può essere davvero complotto; anzi, proprio le spiegazioni ex-post come quelle di Friedman aiutano il sistema ad auto assolversi, attraverso una dialettica tanto fumosa quanto antica e garante di un unico messaggio: i processi (in)decisionali riguardano le élite e solo le élite. Chiunque non ne faccia parte, è pregato di stare alla larga e di accontentarsi di complotti dal marmo pulito.