Il primo scorcio di papato è giunto al capolinea. Domenica si è concluso l’Anno della Fede. Un momento di riflessione fortemente voluto, ma non portato a termine, da Benedetto XVI. La storia del papato, si sa, sopravvive nella continuità. Chiamateli passaggi di testimone o semplicemente tradizione. Ma su questo si basa una struttura prossima ai suoi primi duemila anni di esistenza. Un procedere che nella storia del ventesimo secolo ha avuto un precedente importante nel Vaticano II, inaugurato da Roncalli, ma sostanzialmente guidato e concluso, non senza traumi, da Paolo VI.
Il 2013 sarà ricordato come l’anno del papato. Nulla era preventivato, ma la sequenza di eventi a cui abbiamo assistito consegnerà alla Storia questa suggestione. Insomma, che questo sia stato l’anno dei tanti primati nessuno lo mette in dubbio. Nel giro di pochi mesi si è potuta osservare la prima dimissione papale dell’età moderna, il primo pontefice sudamericano e il primo papa gesuita di sempre. Ma c’è di più: domenica sono state esposte le reliquie di san Pietro. Non era mai accaduto prima. Una scelta che vuole confermare – sotto il profilo mediatico, almeno – il primato della sede romana anche innanzi ai nuovi impulsi collegiali.
Dopo i tanti interrogativi e sensi di colpa connessi alla clamorosa scelta di Ratzinger, che per altro ha coinciso cronologicamente con la penitenza quaresimale, la cattedra petrina sembra essere stata investita da una ventata primaverile. Così, almeno, è apparso. Dopo la stagione di Vatileaks, la Santa sede sembra aver ritrovato una sua specifica centralità politica e diplomatica. Uno corso inaugurato simbolicamente con il digiuno imposto da Francesco a tutta la Chiesa contro la guerra in Siria. Determinante o no, il terzo conflitto mondiale, non è scoppiato. Di certificato c’è invece il sodalizio tra Bergoglio e Putin in favore della pace rinsaldato con l’incontro avvenuto oggi.
Ma il papato non vive di sola politica. Il vescovo di Roma è il garante della fede, soprattutto di quella dei “semplici”, dei meno attrezzati sotto il profilo teologico. Su questo versante, bisogna riconoscerlo: tutto resta al suo posto. La Lumen Fidei, l’enciclica scritta a quattro mani con Ratzinger, ne è prova. Un esercizio dottrinale senza macchia e né ombre. I sospetti sono calati, invece, sulla storica intervista al fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari. Uno strumento che ha suscitato l’entusiasmo dei non credenti. Ma anche il magone dei puristi. Ed in effetti, dopo pochi mesi, si scopre come quell’intervista abbia creato non pochi imbarazzi allo stesso pontefice, che non si sarebbe riconosciuto nelle parole pubblicate.
Non a caso quello stesso testo denso di aperture è stato rimosso dal sito ufficiale della santa sede. Mentre lo stesso Scalfari – qualche tempo dopo – si sarebbe lasciato scappare una verità inconfessabile: «Nelle interviste non porto mai taccuino o registratore, cerco di capire la persona intervistata e poi scrivo le risposte con parole mie. Sono dispostissimo a pensare – ha aggiunto – che alcune delle cose scritte da me e a lui attribuite, il Papa non le condivida, ma credo anche che ritenga che, dette da un non-credente, siano importanti per lui e per l’azione che svolge».
Intanto, su di un punto assai controverso, quale la comunione dei divorziati risposati, dopo l’intervista concessa al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, ma anche la confusione provocata dalle fughe in aventi della diocesi di Friburgo, il papa si è affidato al Gerhard Müller, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. «Sempre più spesso – ha spiegato su l’Osservatore romano – viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di “coscienza”, è già stato respinto nella lettera della congregazione del 1994». Un monito che vale dunque come un stop. E che, fatte le debite proporzioni, pone la figura di Müller in relazione a Francesco alla stessa maniera in cui Ratzinger stava a Giovanni Paolo II: il pontefice apriva porte mentre il prefetto le socchiudeva.
Anche sui valori non negoziabili, tema spesso glissato nella predicazione del nuova papa, Francesco è tornato a parlarne, marcando così – oltre ogni dubbio – il suo essere “figlio della Chiesa”. Lo ha fatto durante una delle omelie, tenute di primo mattino, nella cappella di Casa Santa Marta. Il 18 novembre ha tuonato con forza: «Voi – ha chiesto il papa ai presenti – pensate che oggi non si facciano, i sacrifici umani? Se ne fanno tanti, tanti! E ci sono delle leggi che li proteggono».
Un presa di posizione netta che ha portato Sandro Magister, autorevole vaticanista de l’Espresso, a chiedersi non senza stupore: «Ma non era il papa più amato dai progressisti?». La risposta è però implicita al ruolo del pontefice: conservare il deposito della fede. Una mission verso cui, anche l’apertura pastorale più conciliante, deve attenersi. Ed è proprio su questo snodo che verrà giudicato in futuro il peso di questo pontificato: professare la fede. Su questo si giocherà anche il proseguo della luna di miele con i media mondiali. Intanto domenica, con accanto le reliquie del principe degli apostoli, Francesco ha consegnato l’esortazione Evangelii gaudium. Un gesto che dà la cifra di come la barca di Pietro sia ancora in viaggio.