Giorgio Napolitano entrerà in un’aula di Tribunale e testimonierà. Giurerà di dire la verità prima di rispondere alle domande dei Pm siciliani che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è arrivato il via libera della Corte d’Assise di Palermo: insieme a lui volerà verso l’isola anche il presidente del senato Piero Grasso e proveranno a spiegare che loro non c’entrano niente con la trattativa, che nulla sapevano e che le supposizioni dei magistrati sono, alla fine, prive di riscontri. Proprio come ha sempre sostenuto il generale Mario Mori, a lungo sotto indagine in un processo parallelo a quello che vede Re Giorgio e Grasso testimoni. Mori, il 17 luglio 2013, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” insieme al colonnello Mario Obinu. Qualche giorno fa i giudici hanno pubblicato le motivazioni di una sentenza storica che smonta, punto su punto, il castelletto di reati ipotizzati dai magistrati palermitani.
Quando quel giorno di luglio il generale è stato dichiarato innocente ai carabinieri presenti in aula un brivido ha percorso la schiena: Mori, in quel momento, rappresentava l’Arma, lo Stato, il servitore. Ed era sotto accusa: la procura di Palermo aveva costruito sull’ufficiale un teorema. Dicevano: “Mori non ha perquisito il covo di Totò Riina perché collaborava coi mafiosi ed ha evitato di arrestare Bernardo Provenzano il 31 ottobre del 1995 perché voleva proteggere il boss dei boss”. Lo diceva la Procura, lo diceva Antonio Ingroia. Ma non solo: qualcosa di simile lo dicono anche i magistrati che hanno chiesto a Napolitiano di testimoniare. Il teorema è talmente semplice da sembrare ad occhi profani costruito sulle falsità e le motivazioni della sentenza Mori lo dimostrano: “il quadro probatorio si presenta incerto, talora confuso e anche contraddittorio…le indicazioni che ne scaturiscono frammentarie, tenute in piedi da elaborati ragionamenti”.
Sarebbe bastato solo un po’ di buon senso, insomma, per evitare che un generale dei carabinieri finisse sotto processo; sarebbe bastato, forse, solo un pizzico di ragione per evitare di portare le prime due cariche dello Stato in Tribunale. E invece ci vanno, perché così vuole la procura spinta, da un lato, dall’ex magistrato Ingroia, dall’altro dal Fatto Quotidiano che sulla trattativa Stato-mafia ha rafforzato la sua posizione in edicola. Ma se non la ragione (che è di pochi), ecco che sarebbe bastato non credere ciecamente ad alcuni teste ai quali si riconosciuta autorevolezza solo perché le loro parole spalleggiavano l’impianto dell’accusa. Un nome: Massimo Ciancimino. L’icona antimafia che ha avuto la fortuna di mostrare i suoi maglioni colorati in tv grazie a Michele Santoro e Marco Travaglio è considerato, nelle motivazioni della Corte, “inaffidabile”. Di più: dei teste i magistrati non escludono la loro “consapevole e deliberata falsità delle stesse dichiarazioni”. Lo valuterà la Procura che da oggi ha il compito di pesare parola per parola quello che Ciancimino, Brusca, Mutolo e Lo Verso hanno detto alla sbarra. Lo stabilirà la storia. Intanto, nelle motivazioni i giudici non escludono che, tragicamente, i testimoni non abbiano voluto “assecondare” le ipotesi dei Pm. Mica poco per delle icone antimafia.
Tra le accuse che di dritto o di rovescio sono piovute sul capo del generale Mori, poi, ce n’era una meschina: l’uccisione del giudice Paolo Borsellino era il suggello della trattativa tra l’Italia e l’anti-Stato. Lo hanno detto a lungo i Pm, l’hanno smontato in poche pagine i giudici del processo-Mori: “non ci sono le prove”. Dunque: fantasia. Ora tocca a Napolitano e Grasso smontare le idee della Procura e si può scommettere tranquillamente che finirà come per Mori e Obinu. I due processi sono “gemelli” e a luglio la batosta più grande l’hanno avuta proprio i grandi tessitori di trame palermitane. Con la pubblicazione delle motivazioni, poi, quelle stesse batoste son diventate pubbliche umiliazioni: “Le ipotesi – c’è scritto nelle 1300 pagine – restano ipotesi e nuoce alla complicata attività di verifica della fondatezza delle stesse la diffusa inclinazione a trasformarle in fatti”. Parola di Tribunale.