“Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”. È con questa citazione di Albert Camus che Paolo Zucca apre L’arbitro, il suo primo lungometraggio, adattamento di un suo omonimo corto ed autentica sorpresa non in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Lo sport più popolare del Paese come metafora della vita: sul campo da calcio, come nell’esistenza umana, si intrecciano le ambizioni degli uomini e le loro debolezze, rivalità e fratellanza, la sconfitta onorevole e la vittoria codarda.
Ed è proprio il rettangolo verde, qui grigio di terra e per la scelta del bianco e nero, a fare da sfondo alle vicende dei protagonisti del film di Zucca. Uno su tutti l’arbitro internazionale Cruciani, impersonato da un insolito ma efficace Stefano Accorsi, ambizioso fischietto della Fefa (sì, avete capito bene, la Fefa), religiosissimo e rispettoso delle regole fino al giorno in cui viene chiamato a falsare una partita per accomodare le richieste di una federazione marcia per le logiche di potere, sperando così di realizzare il sogno di dirigere una finale di coppa europea. A fare le spese dei tarocchi del sistema, però, sarà soltanto la giacchetta nera, spedita sui campetti della periferia ad arbitrare le partite delle categorie dilettantistiche sarde. Già, la Sardegna, altra protagonista dell’opera prima del giovane regista cagliaritano: le ambientazioni, i dialetti, i personaggi-macchiette dell’episodio inizialmente parallelo e poi convergente con la vicenda di Cruciani, grazie alla suddetta scelta del bianco e nero e ad una fotografia a tratti eccezionale, risultano essere assolutamente centrali nella pellicola, tanto da rendere impossibile allo spettatore immaginare che la rivalità tra i calciatori improvvisati dell’Atletico Pabarile e del Montecrastu (pastori, muratori, proprietari terrieri, emigranti: un melting pot esilarante) si sarebbe potuta accendere da un’altra parte.
I paesotti dell’oristanese sono il giusto sfondo per l’eterna sfida tra le due squadre, una vincente e meschina, il Montecrastu, guidata dall’arrogante imprenditore agricolo Brai, l’altra pura e perdente, il Pabarile, allenata dal non vedente Prospero e risollevata dalla bassa classifica dopo il ritorno in patria dall’Argentina del fenomenale emigrante Matzutzi, figlio di Sventura, il vecchio vicino di casa del mister; sono il giusto sfondo per la folle, romantica e divertente storia d’amore tra il goleador e la figlia di Prospero, Miranda, interpretata da Geppi Cucciari e per le faide familiari tra due cugini pastori difensori del Montecrastu, che ricercano inutilmente la verità dei loro screzi nei dialoghi con un eremita, simbolo in realtà della benevolenza e della dolce ingenuità del cosiddetto popolino italiano.
Tutte le vicende, fuori dal tempo ora per l’ambientazione, ora per il sottofondo musicale affascinante (“Vivere!” di Bixio), si concludono in una comune resa dei conti, e cioè nella partita decisiva tra le due compagini sarde, diretta da Cruciani, in cui tutto ciò che per la durata del film era rimasto in sospeso si conclude in una sorta di contrappasso dantesco. Così chi era forte si riscopre debole, chi cercava gloria eterna riscopre il gusto di quella immediata, chi era rimasto impunito subisce la propria giusta punizione e gli umili trovano nella loro semplicità le risposte a inquietudini e problemi. Perché in fondo, come ci dimostra L’arbitro, la vita è come una partita di calcio: c’è un pallone che rotola, ti travolge e ti stravolge.