Questo è un libro da leggere quando non ci sarà più linea all’orizzonte: il poema di Theodor Däubler [uscito in lingua tedesca in tre edizioni: nel 1910, 1921 e 1930] è opera di tale fattura che studiarla oggi sembra prematuro, perché la realizzazione pratica di quanto esprime o prevede è prevista per un tempo in cui noi non ci saremo, nel futuro anteriore. D’altronde, però, rimandare la lettura a “più avanti” potrebbe però essere un errore se l’irrimediabile sarà già accaduto, e l’insignificanza calata sui testi scritti di ogni genere spingerà a porsi la domanda pirandelliana: avremo ancora occhi per farlo?
A breve distanza dall’uscita in libreria del trattatello L’aurora boreale – Autointerpretazione (Marsilio, 2022; pp.207 € 30) è ora disponibile anche la prima sezione del gigantesco poema: sembra una coincidenza, in questa stasi del tempo storico, in questo enorme interstizio vuoto riempito da conflitti proliferanti che lo rendono simile a un istante eterno, tanto ampio da dare la claustrofobia.
Finalmente tradotte nell’idioma italico, le parole-sentenza e i versi-incantesimo dell’opera däubleriana si presentano nella loro mole, che quasi opprime il lettore e lo scrivente, forse confermando ciò che Ernst Jünger disse al fratello Hans-Georg: nel corso delle nostre vite abbiamo assistito al tramonto degli dèi e all’avvento dei titani.
Riscoprire l’Aurora boreale è forse opera impossibile: un adynaton, se si pensa che nel 1926 tra i firmatari di una sottoscrizione tra intellettuali, in favore della nascita di una società che promuovesse la conoscenza degli scritti di Däubler, furono figure del calibro di Thomas Mann, Oskar Kokoschka, Richard Strauss e Carl Schmitt, e non se ne fece nulla: se fu fallimento ieri, come riuscire oggi? Con ogni probabilità, l’oblio è la modalità con cui il poema vuole essere ricordato dai posteri. Per i motivi di cui dicevo sopra: perché è troppo tardi per deviare la traiettoria degli impatti, e delle imminenti scottature solari planetarie; ed è troppo presto per l’umanità emettere adesso il grido primordiale ma anche finale (che secondo le premonizioni di Däubler sarà un assordante “RA” urlato dall’umanità intera all’unisono) che sigillerà vibrando d’ultrasuoni il termine della fase di millenaria separazione della Terra dal suo astro paterno, il Sole. Per avere un ragguaglio nutriente sull’opera däubleriana, tuttavia, rimando senz’altro alle sessantanove dense pagine che Luigi Garofalo pone all’introduzione del volume.
Si segnalano, qui, soltanto tre dettagli: primo, l’uso generativo che Däubler fa della rima; l’intera architettura poematica poggia su rime. Come scriveva il poeta stesso a Moeller van den Bruck in una lettera del 1905: “io credo che essa sia stata sentita nelle catacombe quale eco per la prima volta […] perché è terrestre e nobilita la terra”, unendo nel suono Welt und Transzendenz. Dato che “non appena risuona una rima, il caos subito abbandona l’anima”, secondo Schmitt. Osservo, di passaggio, che un simile sublime compito incarnativo è stato poi assunto nel secondo Novecento dalla musica post-1955, nelle sue varianti “depresso, ritmo-e-tristezza, spazzatura, dondola-e-rotola, popolare, disco, spilla, metallica, progressiva ovvero elettronica, porcheria, planetaria”*. Voce, chitarra elettrica, sezione ritmica, liriche: la danza estatica a migliaia di “concerti” e la psichedelia salvifica del contingente, nelle orecchie di moltitudini. Dopo la di lei emanazione, rima e musica, ritmo e melodia, come auspicato nel poema däubleriano, può venire soltanto il compimento che, a quanto pare, è alle porte, si conta oramai in millenni e non più in ere geologiche.
Secondo dettaglio è l’autore dell’opera.
Däubler nel 1921
Dell’uomo, nato in quel 1876 in cui Nietzsche visitando Napoli mutava il corso della filosofia (anno in cui nacquero anche altre figure esplosive: Sibilla Aleramo, Gertrud von Le Fort, Max Jacob, Jack London e F.T.Marinetti…), trascrivo qui sotto il ritratto in versi che gli cucì addosso Montale, che lo aveva incontrato a Trieste o a Firenze:
[…] il grande Däubler poeta
della luce del Nord, un nibelungo barbuto
di immensa mole che sfonda la poltrona
e sillaba i miei poveri versi di sconosciuto
miscelando due lingue, la sua e la mia perfette
come mai ho ascoltato. È una memoria o un sogno?
Il quesito è montaliano e dunque annulla anche il bisogno di rispondere a tutti i costi.
Terzo e ultimo dettaglio, lo stile. Se ne prenda uno scampolo a mo’ di esempio:
Peste, cupidigia e ribellione imperversano terribili, dilacerano il sentimento dell’umanità in una maniera tale che una giovanissima luna può spuntare impetuosa dalla terra. Essa è una vivissima accompagnatrice delle nostre zolle patrie. Essa deve, essa dovrà superare un giorno il sole in splendore. Già si annuncia pentecostalmente. Crolla il vecchio mondo, l’edificio culturale dell’uomo giunto al suo compimento storico: vacilla l’Ararat. Dalle sue più alte cime precipitano fuori dalle bare i morti, cadaveri rotolano giù dalle fosse verso le stratificazioni inferiori per poter avere parte, attraverso il fuoco vivente della terra, ala resurrezione della carne. Si realizza l’immane “Looping the Loop”. Con il precipitare dei morenti, il precipitarsi dei morti, il precipitare nell’aldilà di singoli individui, l’intero Ararat si svuota, si ripulisce. Tutti i sepolti ascendono verso l’alto. Ringiovaniti stanno i popoli, nel bagliore del fuoco interiore della terra, nudi, ma carichi del passato che essi stessi hanno voluto, nuovamente in carne e ossa.
[…] La via attraverso il ghiaccio, verso l’Io in Dio, ritorna a essere compito dei singoli individui: chi domina l’aurora boreale quale apparizione cosmica tra noi sulla terra, e allo stesso tempo la riconosce come intima libertà interiore nello spirito, la trasmette agli altri. Luce a gas e illuminazione elettrica sono compimenti dell’aurora boreale intesa in senso geografico. Ogni lembo della terra riceve dalle nostre mani questi doni delle notti artiche, lunghe sei mesi. Essi rischiarano Stoccolma e san Pietroburgo altrettanto bene di Bombay o Rio. […] Sul ghiaccio, sui mari e sui paesaggi della fissità si riversa e si diffonde il fuoco. Sopra l’aria: attraverso l’aria. Tutt’e quattro gli elementi cercano la loro congiunzione. Si spezza il nucleo dell’uomo, trasforma l’uomo, porta a compimento la mutazione dell’oscuro pianeta in una stella lucente.
Del resto, il testo è tutto così, quasi un’ininterrotta sciarada cosparsa di punti-luce, firmata a Dresda nel maggio 1919 (forse, un dato non trascurabile). Come si diceva all’inizio, leggerlo immergendovisi ora come ora, mentre l’insolazione cresce in maniera sensibile e inesorabile, potrebbe essere troppo tardi o troppo presto, cosa che risulta indecidibile: tuttavia, questa poesia in prosa, che non aiuta a prevedere se e quando avvenga l’inversione polare, però, di certo, prepara ad accoglierla.
*) Blues, Rhythm’n’blues, jazz, Rock & Roll, Pop, Disco, Punk, Metal, Prog, Techno, Grunge, World music. Segnaliamo qui in calce una ulteriore coincidenza: la canzone dal titolo “Rock and Roll” delle Boswell Sisters fu incisa negli USA nel 1934, mentre Daubler si accingeva a morire in sanatorio, a sankt Blasien, nello Schwarzwald.