“Tra donne sole” è il penultimo breve romanzo scritto da Cesare Pavese prima del suicidio. Pubblicato nel 1949 in un trittico che comprende La bella estate, che dà il nome al volume e Il diavolo sulle colline, ritroviamo i classici temi delle sue opere: la solitudine, la nostalgia per il luogo d’origine e l’illusione di ritrovare quello che ci siamo lasciati alle spalle, l’incapacità o l’impossibilità di comunicare in modo autentico.
Il romanzo non piacque al moralista Calvino, ma piacque ad Antonioni che nel 1955 trasse liberamente da esso un magnifico film, Le amiche, che riscosse il plauso della critica e fu premiato con il Leone d’argento alla sedicesima Mostra del cinema di Venezia.
Il romanzo – che alterna monologo a fitti dialoghi – è ambientato in una Torino che presenta ancora le ferite della guerra. Le protagoniste sono donne sole, disincantate, annoiate dalla vita: Momina, Nene, Mariella, Rosetta restano chiuse nel loro ambiente, che è poi la medio alta borghesia. Torino è anche la città natale di Clelia, la narratrice, donna disinibita, volitiva, di umili origini, che è riuscita, grazie al proprio lavoro, a far parte di quel mondo borghese da lei ammirato e agognato fin dall’adolescenza. Clelia dopo tanti anni ritorna a Torino da Roma con l’incarico di mettere su un atelier di moda. Ma del mondo borghese che frequenta Clelia percepisce la vacuità, il cinismo, il vuoto:
«Quand’ero bambina, invidiavo le donne come Momina, Mariella e le altre, le invidiavo e non sapevo chi fossero. Le immaginavo libere, ammirate, padrone del mondo. A pensarci adesso non mi sarei cambiata con nessuna di loro. La loro vita mi pareva una sciocchezza, tanto più sciocca perché non se ne rendevano conto. Ma potevano far diverso? Al loro posto avrei fatto diverso?».
Per Clelia il lavoro è stato uno strumento di riscatto, ma nel momento in cui viene assunto come un valore primario, finisce per impoverire i rapporti umani e per omologarla a quel mondo che in fondo disprezza e di cui però si sente ormai parte:
«M’accorsi, camminando, che ripensavo a quella sera diciassette anni prima, quando avevo lasciato Torino, quando avevo deciso che una persona può amarne un’altra più di sé, eppure io stessa sapevo bene che volevo solo uscir fuori, metter piede nel mondo, e mi occorreva quella scusa, quel pretesto, per fare il passo. La sciocchezza, l’allegra incoscienza di Guido quando aveva creduto di portarmi con sé e mantenermi – sapevo già tutto fin da principio. […] Nemmeno di piantarmi lui era stato capace. Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno».
Ed anche il successo conseguito nel lavoro si rivela alla fine un falso obiettivo:
«M’ero detta tante volte in quegli anni – e poi più avanti, ripensandoci – che lo scopo della mia vita era proprio di riuscire, di diventare qualcuna, per tornare un giorno in quelle viuzze dov’ero stata bambina e godermi il calore, lo stupore, l’ammirazione di quei visi familiari, di quella piccola gente. E c’ero riuscita , tornavo e le facce, la piccola gente eran tutti scomparsi (…) Maurizio dice sempre che le cose si ottengono, ma quando non servono più».
Gli uomini che compaiono nel romanzo corrispondono perfettamente alle donne rappresentate: fatui, cinici, incapaci di provare sentimenti profondi. Sembra fare eccezione Beccuccio, il capomastro, che appartiene alla classe operaia, l’unico tra i tanti spasimanti a cui Clelia si concede. Ma entrambi alla fine debbono prendere atto che la distanza tra loro è incolmabile.
Di fronte alla dolorosa consapevolezza di Clelia e alla frivolezza delle altre risalta la fragilità di Rosetta, che ha già tentato una volta il suicidio. Rosetta avverte una mancanza (d’amore?) che nel romanzo non è ben specificata, ma solo suggerita:
«Rosetta Mola era un’ingenua ma lei le cose le aveva prese sul serio. In fondo era vero che s’era uccisa senza motivo, non certo per quella stupida storia del primo amore con Momina o qualche altro pasticcio. Voleva stare da sola, voleva isolarsi dal baccano, e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo».
Dietro Clelia e Rosetta si nasconde, a ben guardare, lo stesso Pavese. E il racconto del suicidio di Rosetta anticipa drammaticamente il gesto estremo che lo scrittore avrebbe compiuto di lì a poco.
‘Del mondo borghese che frequenta Clelia percepisce la vacuità, il cinismo, il vuoto’… E avanti con la solita sparata anti-borghese. Strano perchè la media borghesia era la classe sociale di Pavese, nella quale c’era ovviamente un po’ di tutto, in Italia come altrove… Ciò vale anche per certi biografi di Pavese, che hanno insistito sui difetti e limiti della borghesia torinese del tempo. Come se essa non avesse pure avuto molti meriti, nell’idea della Pubblica Istruzione e nel valore della Scienza e della Cultura, nel far transitare il nostro Paese (o almeno una sua parte) dal Mediterraneo al Settentrione industrializzato, con tanto di ‘ascensore sociale’, nel suo dinamismo novecentesco ecc. .. Pavese non si sentiva a disagio nella condizione borghese, cinica, vuota (vacua è solo un sinonimo), sciocca o no, ma nella vita. Ciò che va al di là di classi e sociologismi abusati…
Per restare sul pezzo sicuramente la borghesia ha avuto molti meriti sino a quando si è voluta assumere anche responsabilità politiche ( come al tempo di Pavese) e non solamente “fare soldi”
Al limite , per l’articolo in questione, porrei l’accento sulla effettiva disparità di sensibilità tra il capitalismo anglosassone impregnato di calvinismo e quello europeo influenzato di cattolicesimo ( come quello di Clelia) che alla fin fine non considera la scalata sociale benedetta
In definitiva se oggi esiste un capitalismo è quello prettamente finanziario che del lavoro, nobilmente inteso , non ha più nulla e che sostituisce nelle stanze decisionali qualsiasi volontà politica .
In effetti la proletarizzazione è un processo mondiale di cui la “borghesia ” è la prima vittima, ma che non può piatire nessuna comprensione per la sua spontanea resa da ogni iniziativa politica e sociale
La borghesia dal ‘700 imita l’aristocrazia e ne imita il tratto distintivo, che non è il denaro, ma la cultura, il gusto, il senso delicato del vivere, lo stile. Oggi la borghesia è colta? Quale borghesia? Cristiano Ronaldo, Leo Messi, Donald Trump, quel cialtrone di Tesla, quell’altro di Facebook, Abramovich ecc.?