L’argomento che propongo è alquanto complesso e, a un tempo, in un certo qual modo, assai ambizioso per poter essere concentrato in un articolo che, a sua volta, ricostruisce il contenuto – qui ampliato e corredato di note e bibliografia – di una serie di conferenze tenute in Italia, Portogallo e Brasile. Una complessità dovuta, prima di tutto, alla necessità di distinguere, allorquando si parla di traduzione letteraria, fra “traduzione in prosa” e “traduzione poetica”, in quanto sono, a mio avviso, due atti del tradurre che occorre tenere separati. Difatti, presentano fra di essi più divergenze che convergenze, sempre che non si tratti di prosa “alta” o poetica, nel qual caso l’approssimazione è maggiore.
Fatta questa dovuta premessa – e mettendo da parte, come scelta voluta, qualsiasi spiegazione eccessivamente tecnicistica – cercherò di riassumere quelle che sono, a mio avviso, le peculiarità più importanti della traduzione letteraria, tanto in prosa quanto in versi, e, quindi, le maggiori difficoltà, a livello pratico, a essa legata.
Risulta essenziale in primis prendere in considerazione la differenza esistente fra «testo chiuso» e «testo aperto» – categorie così denominate da Umberto Eco per la prima volta in Opera aperta, del 1962, e più tardi riprese e approfondite, sempre da Eco, nel 1979, in Lector in fabula [cfr. ECO, 2006 e 2004].
«Testo chiuso» è un testo “non letterario”, ossia, non avente la funzione di offrire una molteplicità di interpretazioni a chi lo legge. Un testo chiuso, ad esempio, è un qualsiasi orario (ferroviario, degli autobus, dei voli e così via) o un elenco telefonico. Il produrre un testo del genere non implica da parte dell’autore alcuna “strategia” narrativa, se non quella, che è poi implicita oltre che elementare, di mettere insieme delle informazioni precise da fornire a un «Lettore Modello» (1), altrettanto preciso e anche, possiamo definirlo, “passivo”. Riferisce a tale riguardo Bruno Osimo – noto traduttore e teorico della traduzione – che
«nel caso di un elenco telefonico, per esempio, il lettore modello già conosce l’uso e la funzione della rete telefonica, già conosce le modalità di organizzazione del materiale all’interno del volume e a colpo sicuro reperisce l’informazione di cui ha bisogno» [OSIMO, 1998: 14].
Lo stesso vale per un orario ferroviario o un altro documento di tipo identico.
«Testo aperto», al contrario, è un qualunque “testo letterario”, sia in prosa che in versi, poiché in questo caso la sua funzione è quella di fornire – proprio per questo è detto “aperto” – una miriade di interpretazioni a chi lo legge. Pertanto, nel caso di un testo aperto, il lettore non è già un fruitore passivo, poiché in tale tipo di testo gli viene “lanciata” una serie, più o meno vasta, di ipotesi interpretative con annesse verifiche, che dipendono, ovviamente, dalla sua competenza e dalle sue capacità inferenziali (2). Tale serie di lanci d’ipotesi e la conseguente loro verifica, appunto perché si tratta, da parte del lettore, d’intendere e interpretare un testo aperto, è definita «circolo ermeneutico» (3).
Ciò detto, esistono, tuttavia, dei luoghi comuni, quanto alla traduzione di un testo aperto o letterario che – credo – debbano essere sfatati. Al di là del luogo comune della cosiddetta “obiezione pregiudiziale”, con riferimento soprattutto alla traduzione poetica (4), e che, per fortuna, oggigiorno sembra definitivamente superata, perdura ancora, fra alcuni teorici, la concezione del traduttore come mestiere e, quindi, provvisto solo di tecnica pura.
Occorre dire, al di là di questi e di altri luoghi comuni, come sia utile che vi siano traduttori i quali continuamente e dappertutto producano versioni di una determinata opera letteraria.
Il problema è stabilire come debbano essere prodotte tali versioni. Ad esempio: a) è giusto o comprensibile, nel caso della prosa, che vi possano essere delle parti del testo della lingua di partenza non trasposte e, pertanto, non tradotte nel testo della lingua d’arrivo?; b) in base a quale principio o regola un traduttore può decidere quali parti di un testo in prosa nella lingua di partenza possono non essere trasposti nella lingua d’arrivo?
Uno dei maggiori teorici della traduzione, l’estone Peeter Torop, scrive nella sua celebre opera La traduzione totale (1995) che
«la traduzione assoluta o ideale non esiste ma, sulla base di un originale, si può creare tutta una serie di traduzioni diverse, però in linea di principio parimenti valide» [cit. in IDEM: 22-23].
Che cosa se ne deduce da tale affermazione? Innanzitutto come in qualsiasi processo di traduzione, particolarmente in quella letteraria, sia inevitabile il riferirsi a «interrelazioni tra elementi traducibili, tralasciabili, modificabili e aggiungibili» [cit. in IDEM: 23].
Questo comporta un fatto importante o, per meglio dire, dei rischi, quali: a) una competenza linguistica o culturale o linguistica e culturale insieme, da parte del traduttore, insufficiente per l’analisi di un testo, finendo per determinare inevitabilmente errori di comprensione quanto al testo di partenza e, di conseguenza, anche errori di traduzione; b) un intervento ideologico strumentale attivo, allorquando il traduttore s’arroga la pretesa d’asservire la propria versione tradotta alla dimostrazione di una tesi propria.
Ovviamente, parlando sempre nello specifico di prosa letteraria, una traduzione è valida quando questi tipi di rischi non sussistono. Altrettanto ovvio è che ogni versione di uno stesso testo tradotto in una medesima lingua differisce dalle altre soprattutto per il contenuto, da un punto di vista tanto connotativo quanto stilistico. Contenuto che il traduttore ha deciso, per così dire, di sacrificare in nome della comunicabilità, della trasposizione o trasportabilità del testo di partenza.
Pertanto, di un’opera letteraria in prosa,
«ogni traduzione rappresenta […] la visione del traduttore, parziale, diversa, espressa nella lingua d’arrivo, una visione che anche soggettivamente cambia nel tempo» [IDEM: 23].
Sicché, nonostante il traduttore si sforzi di adottare la massima trasparenza, di porsi con il suo lavoro di traduzione come un semplice tramite fra l’opera e il lettore, è naturale, quasi inevitabile, che il suo intervento di mediazione – a un tempo, geografica, storica, ideologica, culturale e psicologica (a prescindere dal grado, ossia, può essere un “piccolo” o un “grande” intervento) – lasci un’impronta “indelebile” sul prodotto di tale suo lavoro traduttivo.
Non per nulla, quello della traduzione letteraria è un procedimento creativo, che le “macchine” (per intenderci i programmi di traduzione che oggi giorno anche molti traduttori di professione utilizzano) non sono ancora in grado di svolgere o tutt’al più lo svolgono solo in parte, rendendosi pur sempre necessario alla fine l’intervento umano e, pertanto, del traduttore stesso [cfr. IDEM: 23-24).
Del resto, come scrive Franco Buffoni – oltre che poeta e docente universitario, insigne traduttore e direttore della rivista di fama internazionale «Testo a Fronte»:
«la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo. Questo può valere al massimo per un testo di tipo tecnico, per il quale è – tutto sommato – congruo continuare a parlare di decodifica e di ricodifica. L’invito nostro è invece a considerare la traduzione letteraria come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilmente – fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica» [BUFFONI, 2005b: 10].
Alla luce delle principali teorie interpretative – che sarebbe interessante analizzare a una a una, ma che lo spazio a disposizione purtroppo non lo consente – allorquando siamo di fronte a un testo letterario tradotto, il traduttore assume un ruolo duplice: quello di “ricevente” (quindi, di lettore) e quello di “emittente” (quindi, di autore). Sostanzialmente – come riferisce Bruno Osimo, il quale, a sua volta, si riporta a Susan Bassnett-McGuire – «il traduttore è fine e inizio di due diverse, ma collegate, catene di comunicazione», che possiamo rappresentare con lo schema: «Autore-Testo-Ricevente = Traduttore-Testo-Ricevente» [cfr. OSIMO, 1998: 27].
Pertanto, il traduttore ha tutte le responsabilità del lettore – un lettore particolare, tuttavia, poiché è un lettore che interpreta il testo aperto di partenza, attuando, di conseguenza, un vero e proprio atto critico – che vanno sommandosi a quelle dell’autore, poiché, appunto, autore del testo nella lingua d’arrivo.
Tutto ciò fa sì che l’«arte della traduzione» – come già notava il tedesco Alfred Wolfenstein (1888-1945), poeta, drammaturgo e traduttore dal francese (Verlaine, Nerval, Hugo, ecc.) – assuma anche una «missione etica», nel senso che getta dei ponti fra culture straniere, differenti e distanti, fra i loro stessi popoli, «perché l’opera poetica e, più in generale, quella letteraria, sono l’espressione autentica di un popolo, mai completamente reprimibile nemmeno in periodi turbolenti» [WOLFENSTEIN, 2005: 465]. In questo modo, i lettori ottengono informazioni circa tutto quel che concerne tale popolo: dalla conformazione del suo territorio al suo clima, dal suo aspetto corporeo al suo spirito, alle sue aspirazioni, dalla sua storia ai suoi usi e costumi, alla sua cultura in generale:
«Sarebbe innaturale se la letteratura di un popolo dovesse rimanere accessibile solo a coloro che parlano la stessa lingua, se la sua azione dovesse arrestarsi alle sue frontiere. Ogni opera d’arte autentica ha un significato umano universale; ha in sé la tendenza a comunicarsi all’intera umanità. Ciò riesce senz’altro alla musica, alla pittura, alla scultura. Una melodia, una statua, un dipinto non hanno bisogno di alcun intermediario. Ma l’orecchio e l’occhio restano impotenti di fronte alla lingua straniera, per quanto un verso possa avere un suono assoluto. Qui deve entrare in gioco il traduttore come un secondo autore […]» [IDEM] (5).
Un traduttore, tuttavia, affinché sia un buon autore, nel momento in cui trasporta un testo dalla lingua di partenza alla lingua d’arrivo: a) deve conoscere assai bene tanto la storia come la cultura del Paese in cui è stato prodotto il testo in questione; b) deve possedere «un’ottima padronanza, quantomeno passiva», della lingua di partenza, che gli consenta, fra le altre cose, anche di cogliere «il ricorso a vari artifici stilistici e retorici» presenti nel testo da tradurre; c) occorre che conosca e scriva ottimamente bene nella lingua d’arrivo (in tal caso, la competenza linguistica deve essere assolutamente attiva), meglio ancora – sempre nel caso specifico di un’opera letteraria in prosa – se è uno scrittore o un critico di professione, senza, però, farsi prendere da impulsi narcisistici, altrimenti tenderà a sostituirsi all’autore del testo nella lingua di partenza; d) deve, infine, «padroneggiare le tecniche di scrittura, riconoscere i registri linguistici» della lingua di partenza «e saperli riprodurre» nella lingua d’arrivo [cfr. OSIMO, 1998: 28].
A questo punto, tuttavia, sorge spontaneamente una domanda: nel caso, ad esempio, di un grande romanzo, il traduttore relativamente all’autore deve essere alla pari?
«Dev’essere Stendhal o Tolstoj per poter tradurre La chartreuse de Parme o Anna Karenina? Il violinista o il pianista non deve essere Mozart quando interpreta le loro grandi opere. Questo paragone ci dice che il traduttore è sì creativo, ma nei limiti dell’opera data» [WOLFENSTEIN, 2005: 469].
Allo stesso tempo, è chiaro che la possibilità di una maggiore o minore adesione all’originale dipende anche dal tipo di testo tradotto.
Si tenga inoltre presente come, all’interno della vastissima gamma dei testi aperti o letterari da tradurre, vi siano, solo per citarne alcuni: a) la traduzione del testo poetico, in primis, che richiede – come più avanti si vedrà – un’attenzione particolare e assai diversa da quella data a un testo in prosa; b) la traduzione cosiddetta “editoriale” (lavorare per l’editoria può voler dire tradurre tanto un romanzo o un saggio quanto un testo giornalistico o tecnico-scientifico divulgativo); c) la traduzione per il cinema (tanto quella sottotitolata, quanto quella del doppiaggio); d) la traduzione per il teatro; e così via.
Quando si affronta l’analisi di un’opera letteraria, narrativa soprattutto – un romanzo, un racconto, una novella –, si è soliti parlare di «segnali di genere», come li definisce Umberto Eco, ossia, quegli indizi che l’autore inserisce nel suo testo affinché il «Lettore Modello» abbia la possibilità di compiere delle inferenze – vale a dire, che possa da questo testo fare delle deduzioni e trarre delle conclusioni [cfr. ECO, 2004: 50-66]. Tali segnali, tuttavia, sono di solito rivolti al «Lettore Modello» della lingua di partenza, il quale, chiaramente, possiede una «competenza enciclopedica» – un’altra definizione di Eco e che sta a significare l’insieme delle conoscenze del lettore – diversa rispetto al lettore della stessa opera scritta nella lingua d’arrivo.
Tali «segnali di genere», a volte, sono o possono essere riprodotti nel testo d’arrivo – utilizzando, ad esempio, una locuzione, più o meno lunga –, altre volte, il traduttore è obbligato a ricorrere a una nota esplicativa. Sostanzialmente, questo accade ogni qualvolta non s’incontra l’equivalente di un determinato termine (può essere anche un oggetto) o un determinato modo di dire (è il caso, ad esempio, di un proverbio) nella cultura della lingua d’arrivo.
In casi di difficile soluzione, la scelta d’inserire una nota è quella più adottata dal traduttore, anche se è quella meno preferita e apprezzata dagli editori, in particolare all’interno di un’opera narrativa, come può essere, ad esempio, un libro giallo o un romanzo d’avventura.
Vi sono, poi, altri casi in cui è praticamente impossibile mantenere una locuzione legata alla cultura del testo di partenza. Un esempio assai citato è quello della locuzione cinese «Hai mangiato?», la quale, stranamente – ma stranamente per noi, che abbiamo una cultura diversissima da quella cinese… –, è una forma di saluto. Difatti, l’«insufficienza alimentare è talmente importante nella storia di quella cultura da produrre questa forma di interessamento affettuoso» [OSIMO, 1998: 32].
Non v’è dubbio, dopo tutto quel che s’è detto finora, come la traduzione finisca per creare delle influenze, con le sue interpretazioni più o meno giuste o più o meno errate, tanto nel lettore quanto, in certi casi, nella produzione letteraria stessa del Paese dove tale traduzione è commercializzata.
Oggigiorno, le tecnologie facilitano l’approssimarsi di Paesi molto distanti. Di conseguenza, come giustamente sottolinea Wolfgang Iser – fra i principali teorici della cosiddetta “estetica della ricezione” –
«molte culture diverse fra loro si incontrano facendo nascere così l’esigenza di comprendere non solo la propria cultura, ma anche quella con cui si entra in contatto. Più questa ci è estranea, più indispensabile è l’intervento della traduzione, poiché la natura specifica della cultura incontrata si può cogliere solo proiettandola su qualcosa di familiare» (ISER, 2005: 505].
Sicché, le traduzioni risultano essere l’avanguardia delle relazioni interculturali, poiché portano in un Paese straniero una parte della cultura del Paese o dei Paesi d’origine in cui il testo o i testi di partenza sono prodotti.
Note
(1) È importante notare come Umberto Eco, in Lector in fabula, non parli di autore e di lettore «in carne e osso», ma di «Autore e Lettore Modello» in quanto «strategie testuali». L’«Autore Modello» è la strategia testuale utilizzata dall’autore empirico al fine di “accompagnare” verso il significato scelto gli «atti di cooperazione» del lettore. «Il Lettore Modello è un insieme di condizioni di felicità, testualmente stabilite, che devono essere soddisfatte perché un testo sia pienamente attualizzato nel suo contenuto potenziale» [ECO, 2004: 50-66 (62)].
(2) Ricordo come l’«inferenza», termine filosofico, sia quel processo logico per il quale, alla presenza di una o più premesse – nel caso specifico dell’atto traduttivo, di più interpretazioni fornite dall’autore del testo – è possibile trarre una conclusione, una deduzione, nonché, conseguentemente – sempre nel caso specifico dell’atto traduttivo – far sì che si generi, nel lettore, un’interpretazione o, meglio ancora, un sistema di interpretazioni, il quale poi altro non è che l’atto critico in sé.
(3) Concetto sviluppato dal filosofo tedesco Hans Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea e il quale afferma, per l’appunto, la circolarità dei processi interpretativi.
(4) «Questa posizione presente tanto nell’estetica quanto nella linguistica (si pensi a Croce e a Jakobson, per indicare due riferimenti notissimi) risulta da una parte legata a definizioni essenzialistiche dell’arte e della poesia (per Croce l’intraducibilità deriva dalla indissolubilità di contenuto e forma, per Jakobson dal prevalere nella poesia della paronomasia) e dall’altra a una idea ingenua del processo traduttivo, inteso come processo binario nel quale a una parola della lingua di partenza deve corrispondere una parola nella lingua d’arrivo […]» [MATTIOLI, 2005a: 188].
(5) È importante quel che riferisce Wolfgang Iser sul «concetto di traducibilità», correlato con «le variabilità dell’interpretazione» e ritenuto, giustamente, «di vitale importanza» anche quanto a quel che «è oggi l’interesse principale delle dottrine umanistiche: i cultural studies» [cfr. ISER 2005: 505).
(6) La semiotica interpretativa, cui Umberto Eco fa riferimento, afferma che un testo risulta incompleto senza l’intervento di un lettore che ne riempia gli spazi vuoti per il tramite della sua attività inferenziale. Un testo – afferma Eco, citando Oswald Ducrot – è «intessuto di “non-detto”», poiché lascia implicita una gran quantità di informazioni che il destinatario deve estrapolare in base alle sue conoscenze dal contesto comunicativo. Ciò si ottiene presupponendo, per l’appunto, una certa «competenza enciclopedica» da parte dello stesso destinatario o «Lettore Modello» [cfr. ECO, 2004: 50-66 e 76-77].
(continua)
Bibliografia di riferimento
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– ISER, W., 2005. Il concetto di traducibilità: le variabili dell’interpretazione, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 505-519.
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– NEWMARK, P., 1988. La traduzione: problemi e metodi, traduzione dall’inglese di Flavia Frangini. Garzanti, Milano.
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– SANSONE, G. E., 2005. Traduzione ritmica e traduzione metrica, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 487-503.
– SPAZIANI, M. L., 1989. La traduzione di poesia come osmosi, in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 151-157.
– STEINER, G., 2004. Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, traduzione italiana di Ruggiero Bianchi e di Claude Béguin. Garzanti, Milano.
– WOLFENSTEIN, A., 2005. L’arte della traduzione, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 465-470.
[Una prima versione di questo articolo – qui abbreviato, rivisto e suddiviso in due parti – è stata pubblicata in portoghese, con il titolo A tradução literária: uma arte conflitual, nella rivista cartacea brasiliana (edita dall’Universidade Federal de Santa Catarina) «Cadernos de Tradução» (Florianópolis), Vol. 2, n. 22 (2008): 9-34)].
Beh, però è vero che tradurre la poesia sia particolarmente difficile, data la quantità di elementi stilistici in gioco. Non si può vietarne pregiudizialmente la traduzione, però bisogna chiarire che tradurre una poesia non vuol dire semplicemente raccontarne la trama, come in certe pseudotraduzioni dei poemi omerici che andavano di moda nelle scuole degli anni Ottanta.
Per quanto riguarda gli elementi distanti tra le culture, basti pensare alle traduzioni della Bibbia, p. es. a quella imposta dall’attuale papetto in cui alla Vergine Maria l’Angelo avrebbe detto “Rallegrati” anziché un semplice saluto sia pure formale (si tenga presente che in greco moderno “Chaire”, pronunciato “Chére”, è un saluto formale, non un “rallegrati”). C’era poi tempo fa la discussione se Gesù, dicendo “shalom” agli apostoli, intendesse effettivamente dire “pace” oppure semplicemente salutarli con l’equivalente ebraico di “buon giorno”.