Scriveva Goethe che il rosso “è la tonalità che il giorno del Giudizio dovrebbe pervadere cielo e terra”. Davide Livermore lo sa. La luce terribile del color porpora investe la scena del prequel di Orestea, quell’Agamennone di Eschilo, che tutti concordano a definire archetipo.
Archetipo del πάθει μάθος (pathei mathos) ossia della legge universale secondo cui la giustizia umana debba essere attraversata radicalmente dall’ingiustizia.
La attraversa Agamennone (Sax Nicosia in un’interpretazione superba tanto quanto il suo personaggio) su un tappeto di fiori rosso porpora, “damascata bellezza”, disseminati e fatti cadere sulla scena dall’alto della reggia (e del cielo?).
La attraversa Clitemnestra, la regina “donna dal maschio cuore” che quel tappeto allestisce per farsi giustiziera ingiusta: può mai la giustizia essere scannatoio? Veemente, appassionata, infida, crudele, gelosa, madre: questa è la Clitemnestra di Eschilo che Livermore plasma con materia incandescente, complice la carica di teatrale seduzione di cui è fatta Laura Marinoni. Clitemnestra, debordante di odio e finzione malcelati da un hayworthiano abito rosso, è il demone maligno, lei stessa strumento di una vendetta divina e umana assieme: sgozza il marito che le aveva sgozzato la figlia sull’altare per la vittoria a Troia e sgozza la sua concubina per vendicare l’orgoglio ferito di femmina.
Anche Cassandra attraversa quel tappeto fatale steso per lei già da Apollo. Una nota merita l’interpretazione di Linda Gennari. Potentissima Cassandra e potentissima Linda Gennari mentre si contorce, scossa dagli spasmi del dio che stese per lei da tempo il fatale destino della profezia, posseduta da un Apollo onnivoro quanto il suo speculare Dioniso, mentre condensa nel suo verticale corpo tutto il climax di questa storia di irrefrenabili moventi.
Una messinscena robusta e antilirica, sintesi di antico e contemporaneo- com’è nella poetica di Livermore- sorretta dalla traduzione di Walter Lapini, che insiste su un registro medio (vedi “strusciare”) che talvolta stride con la magniloquenza dell’allestimento. Agamennone di Livermore oscilla tra il glamour disfatto della Mittleuropa (grammofono, secretaire, divani, calici e sigarette e pianoforti sono attributi narratologici di una scenografia inessenziale, firmata dallo stesso regista e da Lorenzo Russo Rainaldi così come i bei costumi di Gianluca Falaschi) e il cinema noir coniugato all’espressionismo tedesco- in ovvia continuità con talune scene della messinscena di Coefore Eumenidi– e il cinema horror. Orson Wells e Stanley Kubrick fino al visionario dark Tim Burton, evocato nel trucco delle due Ifigenie, due perfette spose bambine e interpretate dalle giovani e brave Carlotta Messina e Maria Chiara Signorello.
Due per il gioco del doppio che è la chiave estetica della versione livermoriana di Agamennone. Due Ifigenie e due specchi wall (uno al centro che sovrasta la scena dialogando con Coefore Eumenidi e uno a terra, un globo screen) raddoppiano coro e pubblico, perché della violenza della polis tutti siamo responsabili come impone la catarsi tragica. L’effetto è una continua metonimia tra realtà e teatro, tra la polis e il dramma, tra doppio e doppiezza. Tanto da agire in forma di metatesto sul dettato eschileo, traducendo la citazione in immagine, quando appaiono Oreste, Giuseppe Fuscello, e Elettra, Margherita Vatti.
Apparenze, simulacri, fantasmi, ossessioni della coscienza- “il male fatto ai morti è sempre pronto a risvegliarsi“- che chiedono incrocio di occhi al tetragono Agamennone e brandiscono il pugnale di Clitemnestra con sfacciata citazione da Shining. Spiazza Livermore ancora una volta con una regia coraggiosa e con l’obbedienza alla tradizione letteraria.
E’ difficile chiamare azzardo ciò che per Livermore è sperimentazione. Come per la scelta di non farsi tentare dall’opera lirica ma riempire comunque la cavea di note e di suoni. Non c’è un attimo di silenzio: scoppi che scandiscono il doppio narrativo proiettato sugli schermi, spari dalle pistole moderna metamorfosi del pugnale, sirene d’allarme aereo, rumori di oggetti caduti a terra e musica. I due pianoforti, di Diego Mingolla e Stefania Visalli, alternano le note di Das Musikalische Opfer di Bach con inserti di rock e di madrigali fino alla dodecafonia. Lo scomposto spartito musicale metaforizza il ritmo recitativo del coro e della corifea. Gaia Aprea è una magistrale corifea che ondeggia sui toni, fino al crescendo finale in cui fa esplodere e riscatta il pathos timido delle prime battute. Lo stesso tessuto recitativo per Olivia Manescalchi, il messaggero e per Maria Grazia Solano, la sentinella, omaggio correct al gender contemporaneo più che alle antiche maschere.
Interessante è la traduzione della riforma eschilea del coro: Livermore lascia intatto l’esiguità del numero degli attori ma ne disarticola (a proposito di dodecafonia) la forma. Il coro dei vecchi del testo di Eschilo viene spostato in un ideale sanatorio, metafora sfacciata della società in disfacimento entro cui si colloca un dramma della famiglia e del potere. E della guerra, se le flotta troiana sono le barchette di carta messe in mare da Ifigenia: tra i simboli più forti della messinscena. La rievocazione del sacrificio di Ifigenia e del delitto di Atreo (la muta significanza di Egisto è tradotta da un ottimo Stefano Santospago) sono gli esemplari alfa e omega di quel “miracolo greco” della Lega di Atene di cui Eschilo, per primo, mostrò la ferocia e i cocci, come nel monito nelle parole di Clitemnestra nel primo episodio sul rispetto dei templi dei vinti (lo riprenderà Curzio Malaparte).
Livermore, con la sua collaudata ed eccellente compagnia, restituisce ancora al teatro il valore di una scommessa totale sull’arte. Così totale (e ruffiana) da congedare il pubblico con quattro minuti di trip hop. Maria Grazia Solano prende il microfono e intona Glory box dei Portishead. Il pubblico illumina i cellulari, canta e accenna un ballo, sulla scena tutti ballano e cantano, e Livermore fa Livermore. Se non è filologia, è Teatro…