Daniele Dell’Orco è il curatore della collana “Sedici Raggi” delle edizioni Idrovolante, dedicata al Giappone e alla cultura nipponica, nonché l’autore del saggio “Non chiamateli Kamikaze” per Giubilei Regnani, con sottotitolo “Dai Cavalieri del Vento Divino ai tagliagole dell’Isis”. Presenta con questa intervista su Barbadillo sia il libro che la collana del Sol Levante
Dell’Orco, da dove nasce la confusione tra Kamikaze giapponesi e terroristi dell’Isis?
“A livello etimologico nasce già con la comparsa dei primi uomini-bomba di Hezbollah negli anni ’70. Oriana Fallaci la utilizza appunto in riferimento ai guerrieri suicidi libanesi e palestinesi. Poi con l’11 Settembre l’associazione è diventata anche a livello visivo più diretta dal momento in cui per l’attacco alle Torri Gemelle vennero utilizzati da Al Qaeda degli aerei, seppur di linea (a differenza dei caccia ‘Zero’ utilizzati dai Cavalieri del Vento Divino), seppur diretti contro obiettivi civili. Da quel momento sono stati definiti kamikaze tutti gli attacchi suicidi di matrice islamica, compresi quelli contemporanei ad opera dell’Isis. E distinguere tra camion-bomba, cinture esplosive o altri tipi di suicidio è diventato secondario”.
Il suo volume ripercorre la storia dello spirito guerriero nipponico. Da dove è partito nella ricerca e su quali documenti si fonda lo studio?
“Chiaramente dall’approfondimento dei classici della letteratura guerriera del Sol Levante. Da Hagakure (di cui Yukio Mishima, per molti l’anello di congiunzione tra l’apparenza Occidentale e la sostanza Orientale, ci ha lasciato uno studio tanto lirico quanto umanistico), al Codice Bushido, al Libro dei Cinque Anelli, uniti però all’aspetto religioso, fondamentale per la comprensione ‘metafisica’ del suicidio. Libri sacri per la cultura buddhista, come lo Shobogenzo, o shintoista, come il Kojiki, sono in tal senso molto utili. Dal punto di vista prettamente storico invece lo studio parte dalla Restaurazione Meiji, ossia dal momento in cui l’Imperatore come figura semi-divina è tornato al centro della vita sociale, politica e culturale del Giappone. Un processo di fattura molto diversa rispetto a quelli che hanno scosso l’Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento poiché attuato senza il bisogno di rivoluzioni o moti popolari. L’etica guerriera che ha generato decenni dopo il fenomeno dei kamikaze nasce proprio dall’abbandono della società feudale e la diffusione capillare e totale del militarismo e del nazionalismo come valore di stato”.
La morte volontaria per un giapponese che valore ha sul piano ontologico?
“Per comprenderlo bisognerebbe prima capire che valore abbia la vita. In Occidente, pervasi da millenni di influenza cristiana che afferma il primato di Dio sulla vita condannando il suicidio, e che solo in alcuni casi accoglie la morte volontaria come esempio di martirio, tendiamo a considerare un suicida come qualcuno che disprezza e calpesta il dono della vita. Per un giapponese, invece, il concetto di privazione è centrale. Nelle piccole comodità quotidiane come nel più estremo dei casi che è appunto il suicidio. È la rinuncia alla propria vita che dà valore all’esistenza. Anche in una chiave estetica. Basti pensare al meticoloso suicidio rituale, il seppuku, o appunto alle acrobatiche morti volontarie dei kamikaze”.
I Kamikaze nella seconda guerra mondiale?
“Sono dei guerrieri che per doti fisiche e metafisiche possono appartenere solo al Giappone. Non è un caso che altri eserciti, prima fra tutti la Wermacht, abbiano provato a ideare progetti simili senza successo. In una condizione di guerra come quella del Giappone nel 1944, praticamente già persa, solo un depositario dello spirito dei samurai avrebbe potuto accettare di sacrificare la propria vita senza ottenere particolari ricompense, non le 72 vergini promesse agli islamici, non la stele nella piazza del paese natìo promessa agli italiani. Lo scopo era solo quello di salvare l’onore della propria stirpe, della propria famiglia, della propria patria e del suo sacro suolo”.
Le polemiche attuali per la presenza dei Kamikaze nello Yasukuni?
“Il Giappone ha un rapporto integralista con la propria storia. La giapponesità unisce le gesta tanto dei vivi quanto dei morti. E donare la vita a difesa dello spirito di un intero popolo, specie quando le battaglie sono già perse, è meritevole di onore a prescindere dallo schieramento. Non esistono morti di Serie A e morti di Serie B. Nel santuario di Yasukuni sono sepolti tutti coloro che hanno deciso di immolarsi per il Giappone. Tutti. Compresi i kamikaze. Compresi i ‘criminali di guerra’ giudicati nel processo di Tokyo. Ed è questo che provoca sistematiche polemiche con Cina e Corea del Sud ogni qualvolta un membro del governo o il primo ministro in persona si reca a rendere omaggio ai caduti, proprio perché lo fa senza alcuna distinzione. Le altre potenze potranno urlare quanto vogliono ma nella tradizione del Sol Levante morire per la patria e l’Imperatore conferisce lo status di ‘kami’ (le figure semi-divine dello shintoismo) destinato a riposare appunto nel santuario di Yasukuni per l’eternità. E un giapponese non rinuncerà mai alla loro celebrazione”.
Il volume si chiude con un focus sul terrore delle bandiere nere. Che morte cercano i fanatici religiosi?
“Una morte precettata, in cui si diviene materia, e non spirito. Spesso anzi, ed è il caso di quanti si fanno saltare in aria tra la folla in Europa o altrove in Occidente, i cosiddetti cani sciolti, non si tratta nemmeno di morti religiose, ma di semplici malesseri umani comuni a una intera parte di mondo. Se i nostri giovani colpiti dal fardello dell’avvenire cercano di dare senso alla propria esistenza cercando un lavoro e una realizzazione ma scivolando spesso nella depressione e nell’autocommiserazione, un arabo, magari immigrato di seconda generazione, vede nella possibilità di incarnare un presunto martirio come una chance di guadagnarsi onore e rispetto. Preferisce la promessa del paradiso a un’esistenza instabile, precaria e priva di senso. La cosiddetta radicalizzazione, sempre più spesso, non avviene nemmeno”.
Idrovolante ha inaugurato una collana sul Giappone: perché questa scelta, quali i primi e i prossimi titoli?
“Sì esatto, si chiama Sedici raggi quanti sono quelli del sole rosso che campeggia sulla bandiera militare giapponese. L’idea nasce dalla crescente fame di sapere che negli ultimi anni sta contagiando gli italiani desiderosi di conoscere il Giappone. Città come Tokyo e Osaka sono ogni anno tra le mete più ambite dal turista italiano e il consumo di prodotti tipici della cultura nipponica è aumentato a dismisura. Tuttavia, una cultura come quella del Sol Levante richiede una sensibilità fuori dal comune per essere davvero compresa a fondo. L’intento dei libri di Idrovolante è quello che fornire delle letture alla portata di tutti ma allo stesso tempo esplicative dell’essenza dello spirito giapponese, specie legato al recente passato. Per questo pubblicazioni ‘storiche’ come “Cannoni e ciliegi in fiore” di Mario Appelius (curato da Cristina di Giorgi) possono ancora essere preziose fonti di conoscenza, mentre “Ceneri ardenti” di Kenjiro Tokutomi è parimenti una descrizione semplice ma potente della sfera familiare del Giappone. Tra i contemporanei, invece, il “Manuale per il samurai del XXI secolo” di Alexei Maxim Russell rapporta alcuni concetti basilari della cultura nipponica ai piccoli problemi quotidiani di ognuno di noi, mentre il nostro best seller, “La Via del Sol Levante” di Mario Vattani rappresenta un viaggio, materiale e ideale, nel Giappone più autentico. Tra le prossime pubblicazioni stiamo lavorando ad alcuni testi inediti di Carlo Formichi e opere mai tradotte in Italia di Osamu Dazai”.