Un’umanità disumanizzata: ecco il sogno inconfessato di tanti apprendisti stregoni che, mossi apparentemente da nobili ideali, operano per modificare il nostro bene più intimo, il corpo umano. Smarrita ogni finalità superiore e abolito qualsiasi orizzonte che non sia quello dell’immediatezza, l’uomo occidentale sembra ormai rassegnato ad accettare, più o meno consapevolmente, qualsiasi cambiamento, compresi quelli che riguardano il nostro patrimonio genetico, in cambio di una vaga promessa di immortalità materiale. Un’analisi puntuale, documentata e crudele di questo tema fondamentale ci viene proposta da uno scrittore e ingegnere di origine messicana, Naief Yehya, autore di Homo Cyborg (eléuthera edizioni, pp.188 € 15, traduzione di Carlo Minardi e Raul Schenardi), nuova edizione di un saggio originalmente pubblicato nel 2001 e niente affatto invecchiato, anzi.
Il cyborg, l’uomo macchina, in questi ultimi anni è diventato sempre meno un’utopia fantascientifica e sempre più una realtà, se non sempre drammatica spesso complessa, con la quale dobbiamo fare i conti in moltissimi campi, a cominciare dal più terribile, quello bellico, dove i droni –ovvero dei robot assassini- stanno implacabilmente sostituendo l’uomo sui campi di battaglia trasformati in videogiochi. Meno drammatica, ma altrettanto inquietante, è la lenta ma inesorabile avanzata delle macchine senza guidatore, inevitabile evoluzione della metropolitana senza conduttore, già in funzione anche a Milano. A proposito degli autoveicoli automatizzati, però, sorge un dubbio non da poco: in caso di possibile collisione con altri veicoli, gli androidi chi sceglierebbero di sacrificare tra un’altra macchina e degli esseri umani?
In attesa, poi, dei robot domestici, progetti sui quali sono stati investiti miliardi di dollari, come racconta la mostra sugli “automi da compagnia” allestita a Rovereto fino al prossimo 27 agosto, ci siamo rassegnati all’automatizzazione dilagante. Dalle macchine che hanno sostituito gli impiegati di banca a quelle che hanno fatto scomparire i posteggiatori, o almeno quelli legali, da quelle che affiancano quasi completamente i piloti a quelle che aiutano egregiamente i chirurghi, fino all’inquietante futuro dove anche gli insegnanti potrebbero diventare virtuali viene tutto magnificato dai media, come si vede dalle copertine più recenti del National Geographic e di Focus, che presentano la robotizzazione come uno splendido e inarrestabile progresso dell’umanità.
Peccato che, come ci ricorda Naief Yeha, la prospettiva di cambiare il corpo trasformandolo in una macchina, traguardo dichiarato del progresso scientifico, trascuri la dimensione precipua dell’uomo, quella dello spirito, rischiando di inseguire una eternità illusoria o comunque insensata, perché “la mortalità è la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita è irripetibile e preziosa.” E, ricorrendo a uno slogan di altri tempi, potremmo ricordare che, innanzitutto, il corpo non è, e non deve diventare una merce. Mai.
*da Avvenire