Pubblichiamo un estratto di “Appunti per comprendere il secolo” di Pierre Drieu La Rochelle, che ritorna nelle librerie per le Edizioni all’insegna del Veltro. Per info e acquisto del volume cliccare qui
SCRITTO NEL GIUGNO 1940
“La Francia è stata distrutta dal razionalismo, al quale essa aveva ridotto il proprio genio. Oggi il razionalismo è abbattuto. Ci si può solo rallegrare di questa sconfitta del razionalismo. Se qualcosa può rivivere in Francia, ci voleva solo la distruzione del mostro che la rodeva. I Francesi erano troppo malati per guarirsi da soli da questo morbo.
Ci si può solo rallegrare se si pensa all’Europa e all’umanità, in cui l’influenza del razionalismo, se non fosse stata sempre combattuta e compensata, sarebbe pervenuta a falsare i veri valori della vita, della passione, della ragione.
La Francia non possedeva più né anima né corpo; un piccolo meccanismo rimontato ancora un’ultima volta faceva le loro veci. Il piccolo meccanismo si è rotto al primo urto. Alcuni Francesi credevano ancora al funzionamento di questo meccanismo per abitudine, ignoranza, stupidità, mentre altri tentavano, bene o male, di staccare da esso la Francia e rilanciarla nella grande pulsazione della rivoluzione europea. Da un lato le apparenze, i ritardi dell’esperienza russa lusingavano e prolungavano le scappatoie del razionalismo francese. Dall’altro, l’amor proprio, un’inibizione falsamente patriottica, impediva allo spirito francese di mettersi nel nuovo palpito che agitava l’Europa.
La Francia dei giovani esploratori, dei marciatori, degli sciatori non era abbastanza forte per imporsi alla Francia dei pantofolai, dei pescatori, dei bevitori di Pernod, dei parolai da comitato, da sindacato o da salotto. La Francia dei militanti determinati d’estrema sinistra o d’estrema destra non era abbastanza forte da imporsi ai conservatori cialtroni che si autodefinivano senza vergogna moderati, radicali o socialisti.
La Francia che aveva letto Sorel, Barrès, Maurras, Péguy, Bernanos, Céline, Giono, Malraux, Petitjean non era abbastanza forte per imporsi alla Francia che leggeva Anatole France, Duhamel, Giraudoux, Mauriac, Maurois.
La Francia del Marocco, dell’Indocina, degli aviatori e dei missionari non poteva imporsi alla Francia dei casalinghi, dei giocatori di carte e di bocce, degli ignoranti di geografia.
La massoneria vetusta; il cattolicesimo dei vescovi prefetti che balbetta un razionalismo più rozzo di quello dei professori della Sorbona sotto il nome usurpato del tomismo o una tiritera idiota di vecchie zitelle sul Sacro Cuore o sul Cuore di Giuseppe; la Legion d’Onore con i suoi duecentomila “membri”; le società di mutuo soccorso e di pompe funebri che seppellisce, appena nata, la gioventù intellettuale (Scuola normale, Politecnico, Ispettorato delle Finanze, Consiglio di Stato, Quai d’Orsay, ecc.); i funzionari e gli istitutori che invidiano ed imitano col loro anticonformismo il conformismo delle classi dirigenti; la Stampa (milionari incolti attorniati da camerieri umiliati); la letteratura con le sue accademie per penne scialbe, i suoi centomila Premi, le sue riviste squallide (ivi compresa la N.R.F., invecchiata più in fretta della “Revue des Deux Mondes” o della “Revue de Paris” nel secolo scorso, esitante tra gli aspetti marginali del surrealismo e le pedanterie del più vecchio clan dei maestri razionalisti); la nobiltà imborghesita che confonde le maniere insipide con le buone maniere; la borghesia che soffoca il resto del suo buon umore sotto l’imitazione dei modi insipidi della borghesia blasonata; il giudeame accanito nel mantenere tutte le corruzioni nell’idea vigliacca e stolta che solo esse possano assicurargli protezione; la piccola borghesia paralizzata tra il cinema e il caffè; gli operai, più borghesi dei borghesi, che vedono nei movimenti sociali soltanto una speculazione ciclica sui salari, capaci d’essere antifascisti tanto quanto la borghesia di essere anticomunista, incapaci di esser comunisti come di esser fascisti, ma capaci di applaudire da lontano una Russia da operetta, incapaci di diventare patrioti quando glielo chiede un lontano annunciatore radiofonico moscovita, ma capacissimi di ridiventare disfattisti e detrattori al primo segnale; i contadini vergognosi del proprio stato che si rassegnano con acredine a far soldi – tutto questo era la Francia e la Francia era solo questo.
Invano l’ordine magnifico dei coloni francesi ha operato in Africa e in Asia, invano gli aviatori hanno operato nell’Atlantico, invano la letteratura ha riaperto i percorsi della vera ragione, della poesia e della mistica.
Da quando Claudel è invecchiato, Bernanos è il più potente degli scrittori cristiani. Anche Mauriac è uno scrittore cristiano, ma, descrivendo le perversità dell’anima, la deviazione della carne, il peccato dello spirito, si confonde con il suo oggetto.
Bernanos possiede il senso di quel cristianesimo robusto che noi ammiriamo e rimpiangiamo nel Medio Evo. Nella sua visione solo il demonio è debole e meschino, ma tutti gli elementi del mito e del rito sono elementi forti; il Peccato e la Grazia si affrontano in un combattimento dove si ha leale dispendio di nervi e di muscoli; la preghiera è un movimento che rimescola e trascende il sangue, dal quale però trae il proprio calore; la carità è una fatica da legionario romano o francese.
Egli vive al largo nel solo mondo vivente, quello in cui hanno vissuto non soltanto i poeti e i santi, ma anche i veri filosofi, il mondo della visione, il mondo in cui si vedono le cose quali esse sono, diverse da come appaiono. È un mondo in cui le cose vivono di una vita doppia, tripla, quadrupla, un mondo in cui possiedono più dimensioni; un mondo in cui una “natura morta” si agita come un corpo saltellante, come un corpo glorioso; un mondo dove gli esseri umani sono incessantemente nel vasto movimento del Peccato, dell’Incarnazione, della Redenzione, del Giudizio Finale; un mondo dove tutto è almeno romanzesco e romantico, e più, molto più surreale, simbolico. I simboli dei poeti e dei mistici significano che le cose sono altro. Le cose di questo “basso mondo” non sono mai così vive come agli occhi del mistico. Non ci sarebbero né pittori, né poeti, né musicisti, se non ci fossero i mistici. Gli artisti non sono altro che mistici attardati nell’apparente e nell’immediato, sono mistici prigionieri del primo momento della mistica, ma ugualmente mistici.
Bernanos è un mistico del primo e del secondo livello. Non è che in lui non vi sia cedimento di questa potenza e di questa grazia di quando in quando. Come Giono, suo pari per ispirazione e vigore, egli subisce l’influenza d’una Francia deleteria e versa talvolta in una sorta di demagogia sentimentale, di compiacimento piagnucoloso. Questo cristiano di buona razza, questo erede di Bloy, di Villiers, di Barbey, di de Maistre precipita in un delirio anarchico in cui, sorpreso dalle novità del secolo, odia gli inattesi e misteriosi difensori più di quanto non ami i suoi tradizionali nemici.
Analogamente Giono, che sembra aver ripreso dalle deboli mani di Claudel la fiamma del grande lirismo maschio, del grande animismo spirituale, e sulla natura autrice di figure e simboli ha scritto pagine di grande vigore quali non si erano lette dopo Cette heure qui est entre le printemps et l’été, dopo certi quadri grandiosi di Zola e di Balzac, dopo Jocelyn, pagine di un’eloquenza visionaria quali non si erano più lette dopo Michelet, Hugo e Bossuet, Giono cade talvolta nella predica, in uno sproloquio filosofeggiante ad uso di quei “discepoli” professionali che vanno volentieri a tergere i loro piedi piatti sullo zerbino dei profeti”.