Una recensione di Riccardo Rosati sul volume “I carnet di viaggio in Cina” di Roland Barthes
Nel 1974 Roland Barthes accetta l’invito delle autorità cinesi e parte per la Cina in compagnia di Philippe Sollers, Julia Kristeva, Marcelin Pleynet e del filosofo François Wahl, dunque quel “battaglione” comunista, anima della storica rivista Tel Quel (fondata nel 1960 dallo stesso Sollers, insieme a Jean-Edern Hallier). La delegazione soggiace a un programma serrato di visite ufficiali attraverso fabbriche, scuole, ospedali, coltivazioni agricole, quartieri cittadini, mentre i rappresentanti locali sfoderano informazioni e cifre sui successi della Cina maoista.
Barthes diviene subito insofferente a quella ostentazione ossessiva di ideologia. La sua attenzione si rivolge quindi altrove, alle persone, ai gesti quotidiani, al gusto delle pietanze, all’erotismo dei ragazzi cinesi, ai colori del paesaggio e, soprattutto, agli imprevisti, quegli incidenti di percorso che sfuggono alla censura, dissolvendo ogni artificio. Annotazioni, impressioni, osservazioni ironiche: i carnet riflettono di continuo la volontà di non lasciarsi intrappolare dai meccanismi della retorica e dagli stereotipi. Una lettura personale della realtà cinese che si va formando lungo le tappe del suo viaggio. Questi taccuini, finora inediti, offrono una visione disincantata di una esperienza che per il celebre studioso fu fallimentare.
Il testo – uscito per la prima volta solamente nel 2009, a cura di Anne Herschberg – pone, come avremo modo di evidenziare, numerosi problemi. Non per niente, Dora Zhang, ricercatrice di origine cinese presso la Università di Berkeley, in un suo articolo di qualche tempo fa (‘The Sideways Gaze: Roland Barthes’s Travels in China’, Los Angeles Review of Books, 23 giugno 2012), stigmatizza la inopportunità di questa pubblicazione:
In Francia la pubblicazione dei taccuini e diari privati di Barthes ha dato il là a polemiche e dibattiti circa l’etica di aver saccheggiato gli archivi di uno scrittore morto. Non è difficile attribuire l’ondata di pubblicazioni postume a quella motivazione mercenaria di spremere sino all’ultima goccia da un autore di qualsivoglia fama, suggerendo la incapacità nell’accettare che nessuna altra parola uscirà da quella penna, una specie di incredulità che quell’autore sia, in sostanza, realmente e veramente morto.
Parole di fuoco quelle della Zhang, che tuttavia non riteniamo totalmente fuori luogo e che, anzi, trovano parziale riscontro nella eccellente prefazione, a firma della nota sinologa Renata Pisu. Qui vi è un altro problema legato a questo testo. Sarebbe a dire, che se, come in questo caso, la parte di gran lunga più interessante di un libro la si ritrova nella prefazione, allora vuol dire che c’è qualcosa che decisamente non va. A dire il vero, il contributo della Pisu si attesta come una delle migliori introduzioni a un saggio, e non unicamente sull’Oriente, che abbiamo avuto modo di leggere negli ultimi anni, e non soltanto per la correttezza delle osservazioni espresse dalla suddetta studiosa, ma soprattutto per il coraggio di sostenere posizioni scomode, totalmente controcorrente, in opposizione ai tanti luoghi comuni della cosiddetta “cultura ufficiale”. In aggiunta, ella più che giustamente non risparmia nulla agli scritti di Barthes, evidenziandone le debolezze, fornendo in tal modo un prezioso strumento di analisi nel confrontarsi con quello che è, in sostanza, un “non-libro”. Non stupirà, dunque, se le sue riflessioni ricorreranno in questa nostra disamina.
“Sì lo so, la Cina… Ho scritto poco ma ho guardato e ascoltato con la massima attenzione e intensità. Ma per scrivere ci vuole altro, ci vuole il sale da aggiungere all’ascolto e allo sguardo e lì io non l’ho trovato” (7), basterebbero queste poche parole di Barthes per far nascere una certa inquietudine, non tanto in chi si interessa di Cina, bensì in coloro che si occupano dell’opera del grande erudito transalpino. Barthes che ammette di non essere riuscito a scrivere su quello che noi amiamo ancora chiamare “Celeste Impero”? Purtroppo sì. Il soggiorno in terra cinese rappresentò per lui una autentica sconfitta intellettuale, ancor più cocente se confrontata col suo stupendo libro dedicato al Giappone (L’Empire des signes, 1970), come fa notare sempre la Pisu: “Il sale che insaporisce e favorisce la scrittura, Barthes lo aveva trovato invece in Giappone nel 1970” (7). La scrittura del linguista diventa “scomposta”, quasi disarticolata, una vera eresia per uno strutturalista del calibro di Barthes; tanto che possiamo definire questo testo senza esagerare un “caso letterario”. E se in un linguista, così attento alla ricomposizione del frammento culturale insito nelle parole, non vi è costruzione, allora significa che pure il suo pensiero risulta carente. Certo, questi suoi appunti non avrebbero dovuto essere pubblicati per volontà dello stesso Barthes, quel poco che egli giudicò degno di lettura venne incluso nel suo articolo intitolato: Alors, la Chine?, apparso su Le Monde il 24 maggio 1974, il quale altro non fu che la sua presa di coscienza di una frustrazione mai provata prima, di “una impotenza di ragionamento”. Va da sé, che non è possibile pensare che la Cina non susciti nulla, eppure nelle sue riflessioni traspare sostanzialmente la noia.
Ancora la Pisu ci fa riflettere sui due seguenti aspetti: sia la compagnia di autori ideologizzati quali Philippe Sollers e Julia Kristeva, sia quella temperie culturale aprioristicamente pro-maoista tipica della intellighenzia degli anni ’70 scoraggiarono Barthes dal diffondere le sue impressioni. Quello che per lui era assai chiaro non sarebbe stato accettato dai circoli intellettuali dell’epoca: la Cina comunista ha nulla o quasi da dire. Del resto, la stessa Pisu denuncia nella sua prefazione quella “ideologia da salotto”, così diffusa in quel periodo in Francia e in Italia, popolata da maoisti che, nella maggioranza dei casi, in Cina non vi erano mai stati, e che si improvvisavano, per giunta, sinologi. A esser sinceri, oggi la situazione non è tanto diversa, è soltanto cambiato il “feticcio” che va difeso a ogni costo: prima era Mao, adesso è la globalizzazione. Pretendere che una mente raffinata come fu quella di Barthes restasse indifferente a una tale miseria culturale è semplice illusione. Qui il succitato “caso letterario” trova la sua soluzione, Barthes non solo non si sentì a suo agio con la Cina che vide, ma, specialmente, capì che nessuno dei suoi amici e colleghi avrebbe mai potuto dare ascolto ai suoi dubbi.
“Non tutte le edizioni postume sono giuste”, questa potrebbe essere una conclusione adeguata da trarre su questo testo. Però, ci sembra troppo limitativa e, alla fine, anche ingiusta verso un Editore che da anni tiene alta l’attenzione sull’Oriente nella nostra Nazione. Ragion per cui, tentiamo ora di trovare un motivo di esistere, una specifica utilità nei carnet di Barthes. Sorvoliamo sulle sin troppe informazioni personali presenti in questo testo per un accademico “freddo” come lui, offrendo agli studiosi di Barthes un quadro a tratti avvilente dello scrittore. Su questo ci limiteremo a dire – in primis a noi stessi – che Barthes era un’altra cosa; politica e sesso nei suoi scritti non ci entravano mai. Solo una potente crisi lo può aver spinto a smarrire il suo strutturalismo, quello che lo rese immortale nella “scomposizione” della conoscenza, per analizzarla meglio nei suoi singoli elementi. Tuttavia, e l’esempio dello scrittore francese ne è prova eloquente, questa metodologia è perfetta per il Giappone, ma assolutamente inadeguata per la Cina, la quale non può essere scissa dalla sua essenza plurimillenaria, composita sì, ma consolidata e compatta.
Quel soggiorno in Cina dall’11 aprile al 4 maggio 1974, quando venne invitato con i suoi sodali di Tel Quel dal Governo di Pechino (a loro spese!), segnò pesantemente Barthes. Giorni bui per lui, mentre osservava con sufficienza gli inconsistenti entusiasmi dell’amico Sollers, “cieco” davanti a tutte le falsità di un viaggio programmato per non mostrare niente di vero a occhi stranieri. Barthes però resta pur sempre Barthes, persino quando in crisi. Differentemente da lui, i suoi compagni erano partiti già con l’idea di celebrare quella Cina in modo aprioristico e acritico, e al rientro in Francia, pubblicarono scritti che non esitiamo a giudicare a tratti faziosamente positivi nei confronti del maoismo. Dal canto suo, Barthes stigmatizza i cliché maoisti, definendoli brique (mattoni). Alla fine, questi carnet sono “sinceri”, fornendo un resoconto “ingenuo” – nella accezione positiva di questa parola – che smaschera con facilità il falso, sostenuto, per converso, da un certo pensiero dominante di allora. Questo è uno dei pochi, ma non certo di scarsa rilevanza, elementi che riabilita l’ardita iniziativa editoriale. Come, del resto, i taccuini dell’intellettuale francese sono “utili” per chi lo studia in modo accademico, rivelando la maniera in cui egli lavorava nella odeporica (la Letteratura di Viaggio).
Ciò non toglie, che la esperienza di Barthes in Cina è stata talmente negativa, da meritarsi quel silenzio che, forse, sarebbe stato saggio rispettare. Lo stesso Sollers se ne accorse bene, affermando che: “La Cina è per Barthes un deserto sessuale” (13). Talvolta, il celebre linguista palesa persino del disprezzo verso lo spettacolo artefatto e volgare che aveva sotto gli occhi in quella terra lontana: “Che impressione! Assenza totale di moda. Grado zero dell’abbigliamento” (33).
Simon Leys (pseudonimo di Pierre Ryckmans) fece giustamente notare come Barthes fosse un uomo dal gusto troppo raffinato per voler pubblicare il suo “resoconto cinese” (12). Barthes non ha voluto, o forse non è stato capace, di trovare nella Cina di quegli anni una adeguata risposta alla sua “ossessione” strutturalista, sovente combinatoria. Quel “segreto decifrato” (7) è rimasto irrisolto, facendogli, drammaticamente per uno dall’ingegno così incline nello scomporre i vari elementi culturali, confessare di essere tornato a casa con: “niente”. Egli ammette quasi senza pudore tale sconfitta: “Tutte queste note attesteranno probabilmente il fallimento in questo paese della mia scrittura” (14). Solitamente in Barthes traspare sempre una algida analisi intellettuale, proprio come avviene nel suo libro dedicato al Giappone, dove spicca una metodologia totalmente differente da quella che il nostro Italo Calvino utilizzò per parlare dell’Arcipelago, giacché il francese era: “[…] più attento alle persone e alle cose, che ai musei e ai siti archeologici” (19). La Herschberg, in questa sua esatta osservazione, non si avvede però del fatto che fu per l’appunto questa necessità di distacco intellettuale che fece crollare il pensiero di Barthes in Cina. Non essendoci in questa Nazione dei codici strutturati come in Giappone, diveniva indispensabile descrivere le persone, ma questo non poteva essere il vero Barthes, il quale ci provò lo stesso, riuscendo solo ad ammucchiare pensieri sparsi e, talvolta, addirittura volgari.
Alors, la Chine? Niente, non pervenuta nei taccuini di Barthes, che riuscì soltanto a trovare quella politica di regime verso la quale non cela mai, nelle sue frammentarie riflessioni, di provare un certo disgusto. Della natura secolare di quello che fu il Celeste Impero egli non si dimostrò capace di carpire alcunché; vuoi per colpa di quel maoismo che l’aveva quasi del tutto cancellata; vuoi per un suo precipuo limite, quel Paese non faceva per lui, e in fin dei conti non gli interessava davvero. Per tale motivo, possiamo ritenere che Barthes facesse parte del “Partito del Giappone”, necessitando di codici gnomici che la Cina contemporanea non possiede ancora.
Concludendo, la qualità testuale di questa pubblicazione è, per i ricercatori di questo enorme studioso, turbante, giacché è assente. Ci siamo avvicinati al testo di Barthes con mille dubbi, quasi timori; la delusione è stata notevole. Comunque, non sarebbe corretto negare completamente la utilità della operazione editoriale. Ovvero, le preziose informazioni che con essa si sono messe a disposizione per chi è uno specialista di Barthes. Per il resto, ci troviamo davanti a un libro non alla altezza di chi aveva fatto della struttura il proprio dogma intellettuale. Il confronto col suo scritto sul Giappone risulta quasi disarmante. Ciò detto, come sinologi non possiamo che apprezzare quelle sue estemporanee, ma rivelatrici, riflessioni sulla Cina maoista.
*I carnet del viaggio in Cina di Roland Barthes (Milano, O barra O, 2015)