Nel lungo inverno fra il 1993 e il ’94, che rivoluzionò la geografia della politica italiana, fummo in molti a paventare che quella di Alleanza Nazionale fosse una delle tante operazioni cosmetiche del vecchio Msi, dalla Destra nazionale al Fronte articolato anticomunista, che si erano risolte in una blanda palinodia dei neofascisti e nell’ingresso di esponenti politici minori o semplicemente fuori dai giochi dei partiti “costituzionali”.
Le cose andarono in maniera diversa, non solo perché i suddetti partiti si erano di fatto disgregati per effetto di Tangentopoli, ma perché vi furono alcuni politici democristiani di alto livello che, quando erano ancora in pochi a credere che il centro-destra avrebbe vinto le elezioni, scelsero di metterci la faccia, aderendo per altro proprio ad An. Uno di questi fu Gustavo Selva, scomparso pochi giorni fa a Rieti a 88 anni di età.
Il percorso di Selva
Selva veniva dal mondo cattolico, aveva compiuto i suoi primi passi nel giornalismo come redattore e poi cronista parlamentare di quotidiani cattolici e dell’agenzia Italia, era entrato in Rai ed era stato, dopo una brillante carriera di corrispondente estero, dal 1975 al 1981 direttore in quota Dc del Gr2 e poi di Rai Corporation e del “Gazzettino”; inoltre aveva rappresentato dal 1979 al 1989 lo scudo crociato come parlamentare europeo. Non era però un democristiano qualsiasi. In un partito nel quale, come mi confidò un notabile di lungo corso, alla scuola della Camilluccia s’insegnava a predicare l’antimarxismo in campagna elettorale per poi dimenticarselo per cinque anni, era quello che all’epoca era definito un anticomunista viscerale. In anni di solidarietà nazionale e d’incombente compromesso storico non risparmiò le sue critiche mordaci al Pci dell’epoca, tanto da guadagnare al suo Gr l’epiteto di Radio Belva. Si guadagnò anche l’odio imperituro della sinistra, testimoniato dai commenti sul web fioccati dopo la sua scomparsa. A differenza della destra che dimentica molto facilmente e tutto perdona in cambio di un’illusoria legittimazione, la sinistra non dimentica né perdona, nemmeno post mortem.
Selva godeva di un larghissimo consenso nella Dc, fra quella vasta fascia di elettorato che non se la sentiva di fare una croce sulla Fiamma per paura di disperdere i voti o per sincero antifascismo, ma cercava un candidato anticomunista in cui riconoscersi. I dirigenti del partito lo amavano molto di meno e quando il suo nome risultò negli elenchi della P2 cercarono di emarginarlo, senza riuscirci. Selva negò sempre la sua non appartenenza alla loggia di Gelli e vinse una causa (e 20 milioni di risarcimento) con Dario Fo, che gli aveva dato del massone.
Selva firma del Secolo d’Italia
Nel 1994 fu eletto trionfalmente, sia nel maggioritario che nel proporzionale, e continuò la sua esperienza parlamentare fino al 2008. A differenza di altri giornalisti deputati, non si sentì sminuito a collaborare a un foglio di partito come il “Secolo d’Italia”, lui che aveva ricoperto incarichi ben più prestigiosi. Anche in questo trovava espressione il suo carattere generoso di lottatore e di vecchio cronista, innamorato della carta stampata.
Proprio questa indole gli giocò un brutto tiro nel 2007. Preoccupato di arrivare in ritardo a un dibattito televisivo, in una Roma bloccata dalla visita del presidente statunitense Bush, Selva chiamò un’ambulanza chiedendo di essere accompagnato dal suo cardiologo di fiducia. In realtà, si recò negli studi de La7. La cosa si riseppe e lui non ne uscì bene, tanto che subì una draconiana condanna per “truffa aggravata ai danni dello Stato”. Cercò di giustificarsi sostenendo di aver chiamato il 118 durante una crisi di cuore (era in effetti cardiopatico) e di essersi sentito meglio dopo aver preso una pasticca, tanto da poter affrontare il dibattito. Ma sul web infuriò la polemica e, quel che è più triste, fra i più severi censori del suo operato vi fu qualche esponente di An che ne reclamò le dimissioni, tanto da indurlo a transitare nel gruppo di Forza Italia. Comportamenti del genere non sarebbero stati concepibili nella vecchia Dc, in cui le varie correnti si scannavano, ma erano poi solidali nel difendere un democristiano quando veniva attaccato, salvo accantonarlo in seguito in un ruolo marginale, anche se magari remunerativo e prestigioso. Anche per questo la Dc, nonostante i suoi difetti, ha governato l’Italia per mezzo secolo, Alleanza Nazionale sì e non per dieci anni.
Ebbe fine così, su di un’ambulanza, così come, ironia della sorte, quella di Mussolini, la carriera politica di Gustavo Selva. Oggi, di fronte a questo peccato veniale, dettato da un senile desiderio di protagonismo e da un’ingenuità quasi infantile (“i vecchi sono due volte bambini”, diceva del resto Aristotele), restano la testimonianza di una carriera politica e giornalistica passionale, illuminata, generosa, e il ricordo di un uomo galante che fu anche un galantuomo, come testimonia un mio personale ricordo.
Nel gennaio del 1996 l’incipit di un mio editoriale sul “Secolo d’Italia” contrario ai sacrifici imposti dall’Unione Europea (“Morire per Maastricht”) fu equivocato e provocò una piccola tempesta politico-giornalistica in cui come al solito fui lasciato solo dai maggiorenti del partito (tirava aria di elezioni, e di candidature, e nessuno voleva esporsi). Una delle poche persone a difendermi in un articolo di fondo sullo stesso quotidiano fu proprio Gustavo Selva. Il vecchio anticomunista democristiano aveva annusato la pretestuosità della polemica montata da una sua ex compagna di partito “più bella che intelligente”.
Per un misto di pudore e di indolenza non gli inviai in quella occasione un biglietto di ringraziamento, e me ne dispiace. Oggi, quasi vent’anni dopo, lo ringrazio di fronte all’Eternità.