Dall’ immagine sbiadita, attraverso i suoi occhi, non traspare abbastanza la forza, l’ardore di una donna che per “coerenza assoluta” quello sguardo non l’ha mai abbassato. Maria Pasquinelli è un esempio di coraggio per un intero popolo, quello degli esuli istriani e dalmati che, nel dopoguerra, ha dovuto immediatamente imparare a convivere con il dolore e la rabbia dell’abbandono.
Passionaria toscana, dedicò la sua giovinezza all’insegnamento della Pedagogia, in seguito crocerossina in Libia, fu richiamata a Spalato, città nella quale fu catturata nel 1943 dai partigiani jugoslavi. Nel febbraio 1947, trovandosi a Pola, ormai libera, assistette alla cerimonia di passaggio dei poteri militari da parte delle forza armate Alleate verso quelle jugoslave, in seguito alla firma del Trattato di Pace. Lei, che in quella occasione si trovava tra la piccola moltitudine di curiosi che circondava i militari, estrasse una pistola, uccidendo il comandante della guarnigione britannica di Pola, il generale Robert W. De Winton. Dopo i tre spari si lasciò immediatamente arrestare dai soldati britannici, perfettamente lucida nella sua azione, coscia del suo destino. Nella tasca del suo cappotto fu trovato questo messaggio indirizzato, più che alle autorità, alla popolazione rimasta sbigottita:
«Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio. »
Poco tempo dopo, nel marzo del 1947, Maria Pasquinelli fu sottoposta a processo presso il Tribunale Militare Alleato di Trieste. La Corte la condannò a morte nell’aprile di quello stesso anno, invitando l’imputata a chiedere la grazia, presentando la propria richiesta nei trenta giorni successivi alla sentenza, ma l’invito fu rifiutato :
«Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi, ma fin d’ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra. ».
La pena capitale per Maria Pasquinelli suscitò profondo scalpore presso l’opinione pubblica soprattutto triestina, e proprio la città giuliana in quei giorni fu invasa da biglietti che recitavano «Dal pantano è nato un fiore, Maria Pasquinelli. Viva l’Italia ». La pena, anche grazie alle vive proteste dei giovani militanti del Movimento Sociale Italiano, fu commutata all’ergastolo. La libertà le fu tuttavia restituita solo nel ’65, data nella quale si trasferì a Bergamo, dove terminerà la sua vita, dedicata all’idea di Nazione, donata all’ideale di un Popolo.
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