L’ultimo hombre vertical del calcio italiano si racconta in un’autobiografia che trasuda pudore. Sentimento perduto e del quale Dino Zoff (e non solo lui) sente un’intima e profondissima nostalgia. “Dura solo un attimo, la gloria”. Ovvero, come diceva sua nonna Adelaide, è passato Napoleone con i suoi stivaloni dagli speroni d’oro, vuoi che non passi il resto?
Chi cerca storielle mirabolanti, superscoop a scoppio ritardato resterà deluso. I cacciatori di gossip andranno in bianco. Non è un libro qualunque, questo. Zoff è fedele a se stesso e non si tradisce, mai. E’ un inattuale, fortemente ancorato alla terra, quella della sua Mariano del Friuli dove è nato, dove è cresciuto con papà Mario, mamma Anna e la severa nonna Adelaide, all’ombra del ritratto-reliquia di Cecco Beppe. Là dove ha iniziato a lottare come un forsennato per imporsi, tra amici devoti e allenatori che non credevano in lui. In quell’angolo di Italia rurale e testarda, dove lo chiamavano “cagatina di mosca” per via delle lentiggini che gli incorniciavano il viso di ragazzetto mingherlino, anche troppo, che quasi non riusciva a crescere.
Dino Zoff racconta la sua parabola di calciatore, dalla Marianese fino alla conquista del Mundial ’82. Racconta anche la sua parabola da allenatore, dalla Juventus fino alla Nazionale, all’Europeo del 2000 sfumato nei quattro minuti di recupero contro la Francia di Zidane e Wiltord. La narrazione c’è, ma tutto, a primo acchitto, sembra riportato in modo quasi cronachistico. Dagli anni di Mantova a quelli di Napoli fino alla Juventus, il rapporto con i grandi del calcio, da Omar Sivori a Gianni Agnelli, le lunghe stagioni della Nazionale (a cui dedica un intero, lunghissimo, capitolo intitolato “Azzurro destino” chiarissimo omaggio all’amico Giovanni Arpino che lo santificò, San Dino, nel celeberrimo “Azzurro tenebra”), la rivalità che per oltre un decennio ha spaccato il calcio italiano: chi è più forte Zoff o Albertosi? Chi è il portiere migliore, chi predilige l’efficacia e il lavoro o quello che indulge all’ebbrezza del volo plastico, dell’estro, anche quando non ce n’è bisogno? Il dibattito è ancora aperto ma Zoff lo vuol chiudere una volta per tutte: il migliore ero io.
Il cuore dell’autobiografia di Dino Zoff è un altro. Non sta nella successione di nomi, date o numeri. Lui i record li ha fatti, di titoli ne ha vinti a volontà. Quello di Zoff, che Dio ce lo conservi per cento anni ancora, è una sorta di testamento sportivo e spirituale. Testamento, beninteso, nell’accezione originaria, etimologica del termine. Una testimonianza che chiama a testimonianza, a sua volta, tutto il mondo del calcio e, indirettamente, l’intera società. Partendo dal lascito – umano prima che sportivo – di due dei suoi più grandi amici di pallone e di vita: Gaetano Scirea e il “Vecio” Enzo Bearzot. Zoff si dichiara sconvolto dall’ipocrisia generale scatenatasi attorno a tutte e due. E’ un hombre vertical, Zoff. Non concepisce altro approccio alla vita che non sia quello della responsabilità e perciò non va d’accordo con coloro i quali prima hanno maciullato gli amici salvo poi, alla loro morte, tesserne e celebrarne le lodi. Che ne sanno loro, urla. Che ne possono sapere, loro, di quella sera di Barcellona quando quel vecchio portiere (cieco, zoppo e finito secondo la stampa) stampò un bacio sulla guancia dell’arcigno fratello maggiore che seppe condurre gli azzurri alla conquista del titolo mondiale meno atteso da che l’Italia ha cominciato a giocare a palla. Che ne possono sapere, loro, di quella stessa sera quando – mentre tutti andavano a ballare, ad ubriacarsi per festeggiare la più grande delle gioie pallonare che possano capitare in sorte a un calciatore – lui e Gaetano, l’amico di sempre, si chiudevano in albergo, a sorseggiare vino e fumare sigarette fino a notte fonda.
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Zoff è un inattuale, dicevamo. Un uomo che, dietro la maschera del silenzio, ha vissuto drammi e contraddizioni sempre a testa alta. E’ un Innamorato del calcio che non riesce ad accettare il fatto che questo abbia venduto la sua anima, che da sport si sia lentamente trasformato in uno spettacolo. E la differenza tra i due concetti c’è, eccome. Si spalanca come un abisso tra la “tradizione” e i cantori del “progresso” che spesso, come Maifredi alla Juve, non è che debba essere per forza migliore. Calcio champagne, dicevano quando dovevano giubilarlo nel 1990. Altro che champagne, era vinello da supermercato, dice oggi (giustamente) Dino Zoff.
Lo stesso Zoff che non ci riuscì proprio, dopo la beffa maledetta di Rotterdam, a incassare le improvvide esternazioni di Silvio Berlusconi che addirittura giunse a definirlo “indegno”. Lui, “operaio specializzato del pallone”, non si genuflesse ai giochi della politica nemmeno dopo le sue dimissioni. non accettò giochi di potere e sorrisi di circostanza. Nemmeno candidature politiche di testimonianza. E, piano piano, è stato estromesso da tutto e da tutti. Zoff è l’ultimo uomo verticale del calcio italiano e i saggi veri, quelli che devono render conto solo alla loro coscienza e alle generazioni che verranno, non possono essere simpatici a nessuno. Mai.
*Dino Zoff “Dura solo un attimo la gloria”, 170 pp, Mondadori