È difficile non cedere alla retorica quando si scrive di Bobby Sands. È difficile perché, che lui ne fosse consapevole o meno, il suo nome è entrato di diritto nel novero dei grandi patrioti, dei grandi militanti politici, dei grandi combattenti per l’idea. In una parola, il suo nome appartiene all’elenco degli “eroi” d’ogni tempo e luogo, al di là delle appartenenze geografiche, ideologiche, temporali.
Se non si fosse lasciato morire di fame nei “blocchi H” del famigerato carcere nordirlandese di Long Kesh, oggi Bobby compirebbe 59 anni. Era nato il 9 marzo del 1954 ad Abbots Cross, un quartiere periferico di Belfast, ed era poi cresciuto a Rathcoole, sobborgo a maggioranza protestante dal quale la famiglia Sands dovette andarsene a causa delle intimidazioni. Se fosse sopravvissuto alla galera britannica forse oggi sarebbe al fianco di tanti compagni dell’Ira, che hanno abbandonato le armi per promuovere il processo di pace nell’Ulster. O magari starebbe con quelle frange che ancora lottano contro l’occupazione inglese, nessuno può saperlo con certezza.
Di sicuro c’è che se il cuore di Bobby Sands ha cessato di battere il tragico 5 maggio del 1981, quando lui aveva appena 27 anni, il suo spirito non è morto. Perché, come lui stesso scriveva, «Non c’è nulla nell’intero arsenale militare inglese che riesca ad annientare la resistenza di un prigioniero politico repubblicano che non vuol cedere: non possono e non potranno mai uccidere il nostro spirito». A distanza di 32 anni da quella primavera di sangue, il suo volto sorridente campeggia ancora sui murales colorati della Belfast cattolica e compare su decine di libri, dedicati a lui e agli altri martiri irlandesi dello sciopero della fame nelle carceri britanniche. Il suo nome è ancora cantato nelle ballate che si ascoltano nei pub di Dublino e Derry e gli sono stati dedicati ben tre film, l’ultimo dei quali – Hunger di Steve McQueen – è uscito pochi anni fa.
Ma l’esempio di Bobby va al di là dei confini, vive anche nel ricordo di migliaia di giovani che in quel lontano 1981 si affacciavano al mondo della politica, in un’Italia ancora dilaniata dal terrorismo e dalla violenza degli opposti estremismi, dalle stragi di Stato e dalla lotta di classe. Nel clima avvelenato della strategia della tensione, del “tutti contro tutti”, della guerra civile permanente, l’esempio di quel giovane irlandese che si lasciava morire per svelare al mondo il volto brutale dell’imperialismo in tailleur e cappellino della signora Thatcher, sembrava una boccata d’aria pulita.
«Prati e scogliere dell’Irlanda lassù a Nord, gente come roccia di Belfast, e la croce d’oro di una fede che vivrà, cornamuse e mitra son per Sands», cantava la Compagnia dell’Anello. E nelle sezioni missine e nei circoli della destra radicale, all’epoca non troppo diverse dai “covi” repubblicani di Belfast circondati da filo spinato e telecamere a circuito chiuso, molti accostavano il nome di Bobby a quello dei caduti “neri” nei tristi Anni Settanta. Non che si volesse dare la patente di “fascista” a chi non lo era, ma in qualche modo il microcosmo degli “esuli in patria”, per usare una felice espressione di Marco Tarchi, si riconosceva pienamente nella lotta dei repubblicani irlandesi: cattolici, socialisti, nazionalisti e tradizionalisti.
Ci fu persino chi, nel periodo confuso e caotico dello “spontaneismo armato”, provò ad avvicinare l’Ira per offrire collaborazione militare e logistica. Collaborazione cortesemente respinta al mittente, anche perché la principale organizzazione guerrigliera d’Europa non aveva certo bisogno dell’aiuto di pochi cani sciolti in latitanza, visto che poteva contare sull’appoggio di un intero popolo e sui finanziamenti della potente comunità irlandese degli Usa.
Bobby Sands se ne andò in una lurida cella del carcere di Maze-Long Kesh, dopo 66 giorni di sciopero della fame. Uno sciopero serio, non alla Pannella. Dopo di lui si spensero nell’ordine Francis Hughes, Ray McCreesh, Patsy O’Hara, Joe McDonnell, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McElwee e Mickey Devine. Tutti prigionieri politici, arrestati in quanto membri dell’Ira o dell’Inla (Irish National Liberation Army). Era stato proprio Bobby, nominato officer commanding (ufficiale comandante) dei detenuti di Maze, a decidere questa strategia: lui cominciò a rifiutare il cibo il 1° marzo e gli altri prigionieri avrebbero dovuto unirsi allo sciopero ad intervalli regolari, allo scopo di aumentare l’impatto “pubblicitario” dell’iniziativa. Infatti i dieci detenuti politici morirono nell’arco di molti mesi: l’ultimo, Mickey Devine, il 20 agosto del 1981.
Malgrado l’ondata di sdegno internazionale contro Londra, il governo britannico non cedette e lasciò morire i dieci prigionieri repubblicani, che chiedevano solo un trattamento carcerario migliore, il riconoscimento dello status di detenuto politico, la possibilità di indossare abiti civili e non l’uniforme da galeotto e di scrivere e studiare la lingua gaelica. Ma come spesso accade, anche un granello di sabbia alla lunga può inceppare l’ingranaggio. E ora si può tranquillamente affermare che il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni non è stato inutile, perché da allora il mondo ha guardato con occhi diversi alla “questione irlandese” e lo stesso governo britannico ha dovuto modificare la propria strategia. Persino all’interno dell’Ira quegli episodi hanno prodotto una nuova concezione politica, dando fiato all’ala più disposta alla trattativa.
Come molti altri nordirlandesi, la palestra politica di Bobby Sands era stata la strada. Abbandonati gli studi, diventa un apprendista capo cantiere, finché non è obbligato a lasciare il lavoro, sempre per le pressioni dei lealisti. A diciott’anni aderisce all’Ira, viene arrestato e rimane in carcere senza processo fino al 1976. Quando esce si trasferisce nei quartieri occidentali di Belfast e diventa attivista della comunità cattolica e repubblicana. Nel ’77 viene di nuovo arrestato e anche se le accuse più gravi vengono lasciate cadere è condannato a 14 anni di prigione per detenzione d’armi: nell’auto su cui viaggiava con altri quattro amici era stata infatti trovata una pistola.
Sconta la pena nel carcere di Long Kesh, chiamato anche Maze, e insieme con gli altri detenuti repubblicani dà vita a una lunga serie di battaglie per ottenere un trattamento migliore. Sono gli anni della “blanket protest” (indossano solo una coperta perché si rifiutano di mettere l’uniforme da carcerato), della “dirty protest” (tutti i bisogni fisiologici vengono espletati in cella) e dei primi scioperi della fame. In questo periodo Bobby s’improvvisa poeta e giornalista, scrive di nascosto su rotoli di carta igienica e con curiosi stratagemmi riesce a far uscire i suoi articoli dalla prigione, rivelando al mondo intero le vergognose condizioni di vita a Maze.
I suoi scritti verranno raccolti nel volume “Un giorno della mia vita”, pubblicato in Italia da Feltrinelli, nel quale denuncia gli abusi cui sono sottoposte le persone arrestate sulla base dello Special Powers Act, che di fatto sospende i diritti civili: «In questi centri di polizia staliniana i sospettati potevano aspettarsi torture psicologiche come la roulette russa, pestaggi condotti al buio, minacce verso i propri familiari e uso di droghe. Più comune era la tortura fisica, come costanti percosse subire calci e pugni senza tregua».
Nel marzo dell’81 i detenuti cattolici cominciano il secondo sciopero della fame. Per salvare Bobby il Sinn Fein (l’ala politica dell’Ira) riesce a farlo eleggere al Parlamento di Westminster, ma il governo di Londra si rifiuta di scarcerarlo, sancendone di fatto la condanna a morte. Al suo funerale partecipano 100 mila persone e per la Gran Bretagna a livello d’immagine è un’enorme sconfitta: l’Ira fa incetta di nuovi volontari, dagli Stati Uniti affluiscono milioni di sterline raccolti nelle comunità irlandesi d’oltreoceano e in Irlanda anche i nazionalisti più tiepidi e moderati si schierano con le posizioni dell’Ira. A New York i portuali bloccano per 24 ore le navi britanniche, a Milano in 5 mila bruciano in piazza l’Union Jack, a Gand gli studenti irrompono nel consolato britannico e a Parigi in migliaia sfilano dietro l’immagine di Sands. La città francese di Le Mans gli dedica una via, così come Teheran, dove via Winston Churchill viene ribattezzata Bobby Sands. Aveva ragione Bobby: nessuna arma può uccidere lo spirito di un combattente irlandese.