Vent’anni fa, dal 25 al 29 gennaio 1995, nasceva, a Fiuggi, Alleanza Nazionale. Non una data ed un avvenimento “qualunque”, per chi c’era, per chi partecipò, da lontano, a quell’evento, per tutta l’Italia. Con quell’appuntamento congressuale si compiva una piccola rivoluzione, una “rivoluzione all’italiana”, senza spargimenti di sangue, senza lacerazioni, né traumi civili, ma pur sempre una “rivoluzione”, partita dal voto del 27-28 marzo 1994, con la fine, almeno formale, del sistema dei partiti che aveva segnato le vicende nazionali del cinquantennio precedente , il cinquantennio della “Prima Repubblica”.
Per la destra politica, ma non solo per essa, si voltava pagina
Sulle ragioni di quella “rivoluzione” vale la pena riportare quanto affermava allora, con sintesi efficace, Ernesto Galli della Loggia (in Intervista sulla destra, Laterza, Bari 1994): “Uno Stato efficiente, attento all’economicità ed alla qualità dei servizi, non più cieco e costosissimo erogatore di tutto a tutti, non più burocratico regolatore di ogni cosa, una prospettiva ideologico-politica da società dei due terzi, un’inversione di massa alle culture politiche della Prima Repubblica ed ai loro apparati di partito: ecco le linee lungo le quali avviene la vittoria della destra alle elezioni del 1994. E’ una vittoria di sapore e di significato tutt’altro che conservatore. E’ la sinistra, semmai, come osserva Vattimo, che ‘ha difeso l’ordine costituito’, mentre la destra si presenta come rivoluzionaria’”.
Con il “Congresso di Fiuggi”, dopo la vittoria elettorale del “Polo delle libertà”, di cui An era componente essenziale, insieme a Forza Italia e alla Lega Nord, si sanciva l’idea di dare finalmente concreta realizzazione ad idee e valori per anni marginalizzati e considerati “impresentabili”, insieme ad una classe politica tenuta ai margini della vita nazionale, nonostante l’investitura democratica.
Ordine, legalità, rigore, merito, senso dello Stato, giustizia sociale, partecipazione, identità nazionale, destini comuni, coesione, ruolo della famiglia: le tesi congressuali furono una declinazione “alta” di queste idee, segno di un ambiente che aveva ben colto il mutare dei tempi e per questo si era messo in gioco, guardando alle nuove sfide epocali (“Pensiamo l’Italia – Il domani c’è già” era il titolo del documento congressuale) piuttosto che attardarsi sulla difesa identitaria e sul passato (rappresentati dalla gloriosa esperienza del Msi e dalla stagione neofascista).
A vent’anni dal Congresso di Fiuggi che cosa rimane di quella esaltante e controversa stagione?
Soprattutto tanta delusione e una ancora non chiara consapevolezza per gli errori compiuti. Chi c’era, chi ha condiviso quel progetto, non può nascondersi quanto poi accadde, con il costante sfarinarsi dei riferimenti “fondativi” e con il venire meno degli impegni programmatici. Da allora, anno dopo anno, ci si è lentamente “assuefatti”: alla logica delle alleanze e dei compromessi, alla politica-del-giorno-per-giorno, priva di slanci e visioni epocali, alla perdita di contatto con il “Paese reale”, in nome della “ragione politica”, al “pensiero debole”, segno di un’identità sbiadita, alle piccole logiche spartitorie, se non – in taluni casi – alla vera e propria corruzione. La “comunità di destino” ha lasciato il campo agli interessi di gruppo. La militanza ha abdicato al tornaconto. Il partito “pensante e pesante” è stato via via sostituito dai comitati elettorali. Ed allora addio al domani, che “c’è già” – per dirla con le tesi di quel lontano 1995 – o che “appartiene a noi”, come cantava l’ inno alla gioia e alla speranza della gioventù “alternativa”.
Lo “spirito di Fiuggi”, malgrado vari tentativi per resuscitarlo, è bello che morto. A ucciderlo è stata soprattutto l’inadeguatezza di quella destra, della sua classe dirigente, ma non solo, a trasformare veramente le idee in azioni (di governo), con il conseguente disamoramento d’ambiente e la perdita di fiducia da parte degli elettori.
Ricordare quel congresso del 1995 non è però un’operazione “nostalgia”. Vent’anni dopo, da Fiuggi la destra politica deve comunque ripartire, non certo per ripercorrere esperienze già fatte e per cercare di recuperare un ambiente ancora segnato dalla diaspora, ma per capire gli errori fatti, per interrogarsi realmente sulle proprie inadeguatezze (evitando di “scaricare” su Gianfranco Fini, che pure ci ha messo molto del suo, tutte le responsabilità), per uscire fuori dal tunnel dell’inedia in cui si è cacciata.
In fondo, a questo, in politica, devono servire gli anniversari. Non per fare del facile reducismo, ma per guardare al domani, nella consapevolezza degli errori compiuti e con la speranza che qualcuno, tolte quelle macerie politiche, torni a costruire.