Consideravo, e considero, Houellebecq un autore pienamente acquisito: e con ciò intendo dire, chiaramente, “terminato”, “finito”, già parte del bagaglio culturale mio, e della mia generazione; un outsider di lusso, chimico di formazione, poeta di originaria vocazione, romanziere eretico, polemista ed esistenzialista erotomane, ossessionato dal sesso e dall’islam, malato d’eternità. Consideravo, e considero, Houellebecq uno scrittore che ha avuto qualche anno di sfavillante e incendiaria potenza espressiva, soprattutto tra “L’estensione del dominio della lotta” [1994] e le “Particelle elementari” [1998], poi una discreta e ripetitiva discesa (“Lanzarote”, 2000; “Piattaforma”, 2002] e infine un romanzo da stanco epigono di se stesso, cioè “La possibilità di un’isola” [2005]. Consideravo, e considero, Houellebecq come un artista francese che ha giocato un ruolo determinante per l’ispirazione della parte migliore della mia generazione, qui in Italia, proprio a ridosso degli anni Zero. Quando nel 2008 Bompiani ha pubblicato la sua vecchia “Ricerca della felicità”, parte del periodo di massima ispirazione dell’artista [1998], ho accolto il saggio conclusivo del nostro letterato rinascimentale Simone Barillari, “La conquista della solitudine”, come un sigillo – se preferite, una pietra tombale. Houellebecq a quel punto sembrava esausto: disperso, tra improbabili esili irlandesi e sciagurate incursioni cinematografiche, trascurabili ritorni alla narrativa (“La carta e il territorio”, 2010) e favoloso minimalismo sul web.
Consideravo, e considero, Houellebecq una maschera: una maschera letteraria francese, come il mezzo rumeno Cioran, come Camus, come Céline, come Rimbaud. Uno che forse era stato degno del Nobel, a un certo punto, a differenza dell’improbabile e molto trascurabile Modiano, ma uno che ormai era andato: finito. Due o tre volte ne avevo parlato con gli amici con cui ero giovane, a fine anni Novanta, primi anni Zero: ci chiedevamo “ma per te che fine ha fatto Houellebecq?” e la risposta, sostanzialmente, era una sola: “Starà scopando con una donna con un gran culo in qualche isola tropicale, mentre pensa a Dio e alla decadenza dell’Occidente”.
Considero la sua recente “Sottomissione” [2015] una pubblicazione postuma, espressione di un’intelligenza artistica che ha già pienamente esaurito la sua creatività e la sua originalità. L’ormai vecchio lettore di Houellebecq – siamo tutti almeno quarantenni, o giù di lì – non si stupisce leggendo che in questo nuovo romanzo (davvero nuovo, o stiamo barando?) l’Occidente si sta consumando, la socialdemocrazia è agonizzante, trasformata com’è nella spartizione del potere tra gang rivali, e l’economia francese sta addirittura sprofondando; la giovinezza del narratore è finita, anzi in fin dei conti lui non è mai stato giovane. Troppo profondo e troppo intelligente per essere giovane. La sua vita amorosa è finita, da un pezzo, ma naturalmente intanto scopa come un assassino, perché ha capito che il piacere è tutto, e che anzi forse l’amore altro non è che gratitudine per il piacere dato. Tutto qua. In questo scenario di profonda sofferenza individuale, sociale, culturale e occidentale, ci prepariamo (meglio: in Francia si preparano) alla disintegrazione: una disintegrazione dolorosa, umiliante. Ma inevitabile. Anzi nell’aria c’è una guerra civile. Il vecchio lettore di Houellebecq non si stupisce che il protagonista di fronte a sé senta di avere una vita senza gioia, e tuttavia non vuota: e anzi che stia cominciando a pensare a Dio, a considerare seriamente l’idea di una “specie di Creatore dell’universo”, di fronte al quale muore di paura. È forse Dio l’argomento ultimo che il vecchio chimico deve avere le palle di affrontare, e da una vita sta svicolando: è quello il suo ultimo libro, quello che non ha scritto, quello che ha in canna da vent’anni. Invece cosa succede in “Sottomissione”? Semplice: Houellebecq si concentra un’altra volta sul “pericolo islamico”, divenuto ormai endemico in Francia: Francia che si tende, come sempre nella sua letteratura, un po’ troppo generosamente, a far coincidere con tutto l’Occidente; con tutto il rispetto, naturalmente, non è così, per niente. Ma nei romanzi di Houellebecq la Francia è l’Europa, e l’Europa è l’Occidente. E cosa succede, stavolta? Si cambia visione: se in passato, nei vecchi libri, l’Islam veniva trattata come una religione subumana, destinata alla sparizione, estranea alla civiltà illuminista e anzi sua ovvia e naturale e retrograda antagonista e così via, stavolta si finisce per cambiare simulazione e congetturare un’Europa (pardon: una Francia) in cui un partito islamico, quello dei “Fratelli Musulmani”, guadagna il potere, legalmente, con l’appoggio dei moderati di sinistra; in questo scenario fantapolitico piuttosto improbabile, e naturalmente piuttosto inquietante, il nostro chimico-poeta si dispera per la mutata estetica femminile (osserva che a quel punto è impossibile guardare i culi, con quegli abiti nuovi e informi: che disgrazia), per le indegne trasformazioni accademiche, per il restituito respiro mediterraneo all’Europa, un’Europa tornata ad avere baricentro diverso da quello franco-tedesco, come al principio della sua millenaria storia, e così via. La sua amichetta (preferita) di turno è stavolta una giovane ebrea francese che simbolicamente sceglie l’esodo, con la sua famiglia, e abbraccia Israele come nuova e antichissima patria, perché non può accettare di vivere sotto regime islamico. Purtroppo a differenza di lei il narratore non sente di avere un’altra patria cui tornare: “Per me non c’è Israele”, pensa. E aggiunge: “Un pensiero da poco; però un pensiero esatto”.
L’esito della vicenda è paradossale, e nell’intenzione autoriale evidentemente emblematico; finisce tuttavia per risultare caricaturale, e stanco. Non nascondo che in più di qualche frangente ho sentito tanta contentezza nel rileggere un autore che per tanto tempo mi è stato così familiare, perché è comunque un intelligente provocatore, e un lucidissimo pornografo, e un poeta spoetato, o giù di lì. Ma a livello geopolitico mi pare molto confuso – tanto da aver dimenticato che nel Mare Mediterraneo orientale non c’è soltanto l’Islam: c’è un’altra e antichissima religione che può giocare un ruolo determinante, nella cultura come nella politica: è l’ortodossia cristiana. C’è addirittura una vecchia città santa da riconquistare e restituire alla cristianità, per rigenerarla. Fantapolitica si può fare anche così, caro Michel, infilandoci in mezzo due o tre avventure tra Smirne ed Efeso, e un pellegrinaggio nei cimiteri australiani di Gallipoli, e una camminata metafisica in Santa Sofia. In mezzo, tutte le scene di sesso che vuoi, con splendide donne di mezza età. Magari a pagamento, magari per gratitudine. E così via.